Oltre 46,8 milioni di affetti da demenza nel mondo e 9,9 milioni di nuovi casi all’anno. Uno studio del 2015 ha evidenziato che il costo globale della demenza è cresciuto dai 604 miliardi di dollari del 2010 ai ben 818 miliardi del 2015. E potrebbe superare i mille miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Ma non solo.
Le cifre che riguardano le persone affette da Alzheimer o da altre forme di demenza potrebbe drammaticamente raddoppiare entro il 2030. Ogni anno, infatti, si stimano circa 9 milioni di nuovi casi e più della metà dei malati vive in paesi sviluppati (reddito medio-alti), proporzione destinata a salire negli anni a venire. La distribuzione dei costi assistenziali risulta anch’essa tendenzialmente in crescita con il 20% riferibile ai costi medici, mentre un altro 40% è legato ai costi di assistenza formale e informale.
Resta il fatto che la demenza è una malattia che rinnova il dolore giorno per giorno, ogni volta che un nuovo deficit si aggiunge a quelli precedenti. Persone intime diventano sconosciute, la convivenza diventa insopportabile comportando uno sforzo emotivo superiore al già pesante costo economico a carico di chi, per amore, deve prendersene cura.
I numeri in Italia
In Italia, i casi di Alzheimer (che è la forma di demenza con la percentuale più alta) sono rappresentati da più di 500 mila casi e sono dati considerevoli che devono far riflettere sull’impegno assistenziale che questi malati richiedono e sui risvolti economici che ne derivano. Purtroppo il fatto che la malattia sia progressiva e degenerativa, non ha portato all’individuazione di una cura definitiva e i protocolli attuali servono solo a ridurne l’evoluzione.
L’Alzheimer Disease International (ADI), Federazione che raggruppa le principali associazioni mondiali nel campo della demenza, intende rispondere ai dati del rapporto con varie iniziative tra le quali spiccano la riduzione del rischio di demenza come primario obiettivo per l’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS); un potenziamento degli investimenti nella ricerca, nella prevenzione, trattamento, assistenza e cura da parte dei Paesi sviluppati e non.
Le demenze vengono classificate a seconda della tipologia e quelle maggiormente frequenti sono: demenza di Alzheimer, demenza vascolare, demenza frontotemporale e demenza a corpi di Lewy. Hanno un fortissimo effetto in termini sociali, sanitari ed economici coinvolgendo direttamente i nuclei familiari che si sostituiscono soventemente anche per quei servizi minimi di assistenza. In alcuni casi i familiari sono costretti a rinunciare al lavoro per prendersi cura del proprio congiunto malato, con tutte le intuibili ripercussioni a livello economico.
La demenza di Alzheimer rappresenta oltre il 50% di tutte le forme di demenza, con una prevalenza negli ultra sessantacinquenni del 4,4% (dati Istat). Questa patologia aumenta con l’età colpendo maggiormente le donne con percentuali che vanno dallo 0,7%, per la classe d’età 65-69 anni, al 23,6% per le ultranovantenni, rispetto agli uomini i cui valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%.
“Nel mondo, il numero di persone sopra i 60 anni è di quasi 900 milioni – si legge nel World Alzheimer Report 2015 – Tra il 2015 e il 2050, si prevede che il numero di persone anziane che vivono nei paesi ad alto reddito crescerà del 56%. Nei paesi a reddito medio-alto l’aumento previsto è invece del 138%, in quelli a reddito medio-basso è del 185%, mentre nei paesi a reddito basso la crescita stimata è del 239%. L’aumento dell’aspettativa di vita sta determinando una rapida crescita numerica, ed è associato all’aumento della prevalenza di malattie croniche come la demenza”.
Le demenze sono ritenute delle affezioni irreversibili e vengono affrontate mediante approcci globali considerando il progressivo aumento e il coinvolgimento emotivo ed economico dei familiari. Alcuni studi indicano che strategie di prevenzione in primis, agendo sulla modifica degli stili di vita e dei fattori di rischio cardiovascolare, possono portare a importanti risultati specie nei confronti della demenza vascolare. Ne consegue che la ricerca scientifica dovrà fare dei grandi passi in avanti lavorando principalmente sui fattori di rischio che ne determinano l’insorgenza.
Ma come prevenire una tale patologia?
Studi epidemiologici (G.M. Pasinetti 2012) stanno ricercando la prova che alcuni polifenoli alimentari presenti nei prodotti dell’uva possono avere un ruolo protettivo contro la malattia di Alzheimer.
Diversi studi evidenziano che il consumo moderato di vino rosso è associato a una minore incidenza di demenza e malattia di Alzheimer. Nonostante lo scetticismo relativo alla biodisponibilità di questi polifenoli, dati in vivo hanno dimostrato chiaramente le proprietà neuroprotettive del naturale polifenolo resveratrolo.
Occorre, però, sottolineare l’ipotesi secondo cui il consumo di vino rosso può abbassare il rischio della malattia è teoria controversa e rimane chiaramente tutta da dimostrare. Tuttavia, Pasinetti e colleghi hanno fornito delle evidenze scientifiche dimostrando che il moderato consumo di vino rosso agisce positivamente abbassando i livelli di alcune proteine. Gli antiossidanti riuscirebbero a bloccare, infatti, due proteine coinvolte nella formazione di placche tossiche che si pensa distruggano le cellule cerebrali. I polifenoli, inoltre, diminuirebbero la tossicità delle placche già esistenti riducendo il deterioramento cognitivo del paziente affetto da Alzheimer. Sfortunatamente, ad oggi, come questi importanti antiossidanti funzionino rimane ancora poco chiaro.
Tenere la mente occupata può aiutare a ridurre l’incidenza della malattia?
Risultati attuali di studi eseguiti in precedenza dai ricercatori dell’università della South Florida hanno dimostrato come, in alcuni casi, tenere la mente occupata da attività intellettuali ( imparare una seconda lingua, leggere, interessarsi a qualcosa) possa aiutare a ridurre l’incidenza di tale demenza. Nello specifico, 2800 persone vennero divise per gruppi. Per sei settimane a ciascun gruppo venne dato un compito: esercizi di memoria, capacità di ragionamento, velocità di comprensione. Un solo l’ultimo gruppo non aveva alcun particolare esercizio da svolgere. Il risultato fu estrememante interessante. Attraverso una valutazione eseguita fino a un decennio più tardi emerse che coloro i quali avevano svolto esercizi sulla velocità di elaborazione di un dato ragionamento avevano il 29% in meno di probabilità di sviluppare la demenza rispetto a quelli del gruppo privo di compiti. Ulteriori studi dovranno essere svolti per sviluppare una tale prevenzione.