Il cattivo stato di salute delle acque italiane mette tutti d’accordo: dalla Campania sino al Veneto. ‘Bevi Napoli e poi muori’ era la copertina del settimanale l’Espresso uscita nel novembre del 2013. Un’inchiesta che riguardava la presenza di uranio e altri veleni nelle acque della città e della provincia. Al nord, però, le cose non vanno meglio.
Proprio il Veneto, regione che vanta più 1.500 aree industriali, è a rischio sicurezza ambientale. La ragione? Ha un nome, Pfas: sostanze perfluoro-alchiliche, normalmente utilizzate nelle industrie chimiche per il trattamento di pelli e tessuti, che sono state riscontrate in grandi quantità nelle acque sotterranee, superficiali e potabili in 28 comuni, compresi nelle province di Padova, Verona e Vicenza. La conferma è arrivata dalla stessa Regione che ha presentato lo scorso aprile a Venezia i dati dello studio condotto dall’Istituto Superiore di Sanità.
Cifre che testimoniano la presenza delle sostanze cancerogene nell’ambiente e nell’organismo di centinaia di cittadini veneti da almeno vent’anni. Sono partite, quindi, le operazioni di sorveglianza sanitaria e ambientale tramite controlli, mappature dei pozzi e installazione di filtri a carboni attivi per ridurre l’esposizione agli agenti inquinanti. Quest’ultime misure, però, non sono considerate più efficaci – come denunciato dagli attivisti locali e da esponenti del M5S, firmatari di una proposta di legge sui Pfas– sia perché i filtri necessitano di un cambio continuo, spesa pubblica non da poco, sia perché tarati su perfluoro-alchilici a catena lunga, composti cioè da 8 atomi, mentre adesso quelli che vengono utilizzati dalle aziende locali sono a catena corta da 4 a 6 atomi: Pfba e Pfbs. Gli stessi che la Miteni Spa, società chimica di Trissino al centro dell’attenzione sul caso Pfas, sostiene di adottare già dal 2011 nel pieno rispetto delle normative.
Tecnicismi che spiegano quanto sia difficile affrontare a tutto campo quella che non si può più definire un’emergenza ambientale ma un rischio concreto per la salute dei cittadini della zona e degli stessi consumatori. Non è ancora chiaro, infatti, se la filiera alimentare sia rimasta coinvolta dall’inquinamento da Pfas. Certo è che le “acque incriminate” possono essere state utilizzate per irrigare i campi e dissetare gli animali degli allevamenti locali.
Sul piano giudiziario due procure indagano sulla vicenda. Quella di Vicenza, che ha iscritto nel registro degli indagati l’ex amministratore delegato della Miteni, Luigi Guarracino, e quella di Verona che ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di «scarico abusivo in falda». Sullo sfondo la possibilità di una maxi-inchiesta veneta per far luce sulle responsabilità del disastro sanitario e ambientale che colpisce una terra dove ogni anno l’aspettativa di vita si riduce di 3 anni e dove aumentano le patologie tumorali: il doppio rispetto alla media europea, quelle in età da 0 a 4 anni.
Una regione dove la superficie agricola è diminuita del 25% negli ultimi 15 anni e dove – come riportato dall’Ispra nel 2014 – i residui delle sostanze nocive nelle acque superficiali ammontano al 74.8%. “Non trovo giusto che alcune persone si siano permesse di prevalere sulla vita degli altri”, sono le parole di Sergio Gobbi, prima vittima certificata da inquinamento per Pfas in Veneto, nel documentario Bandiza. Gobbi cresciuto nella zona del fiume Fratta, a cavallo tra le province di Padova e Verona, ha bevuto fino all’ultimo sorso l’acqua della sua terra.