Domenica 27 giugno 1976, l’aeroporto di Atene Hellinikon (Ελληνικόν) era affollato di turisti e viaggiatori abituali ma le attese per gli imbarchi si prolungavano per uno sciopero degli addetti al settore.
Una coppia di giovani 30enni tedeschi erano appena sbarcati dal volo 763 della Singapore Airlines proveniente dal Bahrein e attendevano di prendere il volo Air France 139 proveniente da Tel Aviv e diretto a Parigi che doveva fare scalo ad Atene a mezzogiorno.
Altri due uomini, sbarcati dallo stesso volo, erano anch’essi in attesa di imbarcarsi sull’aereo francese e si aggiravano senza dare segni di impazienza, poco distante della prima coppia.
Udito l’annuncio dell’imbarco imminente, i quattro si avviarono verso la pista senza passare dal tunnel munito di metal detector, lasciato pressoché sguarnito dalla flebile vigilanza degli addetti alla sicurezza.
Alle 12,10, pochi minuti dopo il decollo, 2 terroristi, la coppia di europei, si pongono all’ingresso della prima classe del velivolo, armati di pistola e bombe a mano, mentre una voce concitata annuncia che l’aereo è passato sotto il controllo del “Gruppo Che Guevara” e dell’”Unità Gaza” del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina. Agli altri due arabi saliti a bordo minacciano i passeggeri con armi automatiche dopo avere dato istruzioni al pilota per la rotta da seguire.
Dopo circa due ore di volo, l’aereo viene fatto atterrare a Bengasi e i terroristi minano i portelloni del velivolo per scongiurarne l’apertura. Una donna colta da malore viene fatta scendere e consegnata ai pochi militari libici presenti sulla pista.
I dirottatori chiedono e ottengono la consegna dei passaporti di tutti i passeggeri e l’aereo dopo il rifornimento, decolla con rotta verso sud, nel cuore dell’Africa. Sono le 21,35.
Nel frattempo la sparizione del volo 139, caduto nel silenzio dopo il decollo da Atene, viene registrata dai servizi di sicurezza israeliani che inoltrano la comunicazione al ministro dei trasporti, Gad Yaakobi che informa il primo ministro, Ytzhak Rabin.
L’apparecchio era scomparso con 245 passeggeri e 12 membri dell’equipaggio a bordo. Erano 83 gli israeliani saliti a bordo all’aeroporto Ben Gurion da dove l’aereo era partito.
Due ore dopo la prima comunicazione dei servizi di sicurezza, fu approntata un ‘unità operativa di emergenza di cui facevano parte, oltre al primo ministro, anche Mordechai Gur, capo di stato maggiore e generale dei paracadutisti, specializzato in blitz a sorpresa.
Le informazioni chiave per la successiva operazione vennero dalla cittadina britannica Patricia Heyman, la passeggera sbarcata a Bengasi per un malore. La donna, rientrata a Londra con un volo della Lybian Airlines, fornì a Scotland Yard una dettagliata descrizione dei dirottatori che vennero identificati per due cittadini tedeschi e due arabi.
Alle ore 15 del 28 giugno, secondo giorno del dirottamento, il ministro della difesa israeliano, Shimon Peres, riceveva notizia che l’aereo era appena atterrato ad Entebbe, capitale dell’Uganda.
Il paese centroafricano era governato da Idid Amin, e le notizie provenienti da fonti in loco riferivano che il dirottamento era stato accolto da grida di giubilo e da appelli emanati da Radio Uganda diretti a tutti i rivoluzionari per una rivolta contro Francia e Israele.
L’opzione militare diretta alla liberazione degli ostaggi stava per prendere corpo tra mille difficoltà per lo più legate alla distanza di circa 4000 chilometri da coprire per raggiungere il velivolo dirottato.
Ma i piani per l’intervento delle forze israeliane ad Entebbe non sarebbero stati attuati se non per un’intuizione di Peres che vide in Gibuti la località dove gli aerei da trasporto truppe avrebbero eventualmente potuto rifornirsi per completare il volo. Non era semplice percorrere rotte sicure per raggiungere il centro Africa; si dovevano evitare i cieli dei Paesi arabi ostili, evitare i radar rivelatori russi stanziati in Somalia e raggiunger in sicurezza l’aeroporto di Entebbe.
In quelle ore, in Uganda, il presidente Amin raggiungeva l’aeroporto con la sua scorta e si auto-proclamava negoziatore tra i terroristi e lo stato di Israele, rassicurando gli ostaggi sulla positiva soluzione della vicenda.
In realtà, Amin, anche detto il “grande saggio”, era noto alle autorità israeliane per aver ospitato una missione militare ebraica in Uganda ed essere stato riscontrato affetto da sifilide all’ultimo stadio dai medici di Gerusalemme dove si era recato per motivi di salute.
La mattina del 29 giugno Radio Uganda faceva conoscere le richieste dei dirottatori: in cambio del rilascio degli ostaggi chiedevano la liberazione di 53 terroristi condannati e detenuti in Israele, Germania ovest, Kenya, Svizzera e Francia. L’ultimatum per la risposta delle autorità israeliane era fissato per le 14.00, ora Israeliana, del giorno seguente.
Il 30 giugno i terroristi, che avevano appena ricevuto un rinforzo di altre sei unità proprio a Entebbe, rilasciano 47 passeggeri come segno di buona volontà. In realtà hanno già identificato gli israeliani che vengono tenuti in disparte dagli altri ostaggi. Tutti vengono trasferiti in una sala del vecchio terminal aeroportuale dove, sebbene guardati a vista dai terroristi, vengono rifocillati con dei pasti fatti recapitare dal presidente Amin.
In contemporanea a Tel Aviv le trattative avviate in modo frenetico con le cancellerie occidentali dove alcuni terroristi sono detenuti, sembrano non portare a nulla. I paracadutisti israeliani ricevono istruzioni per un blitz che sembra essere sempre più imminente. I resoconti di alcuni degli ostaggi liberati parlano di una donna israeliana che, sopravvissuta ai campi di sterminio, viene sorprendentemente liberata insieme ai passeggeri occidentali, ma, nel suo racconto, riferisce di avere udito due terroristi parlare in tedesco negli stessi termini in cui gli si rivolgevano i guardiani del campo di detenzione. La storia della donna raggiunge i militari che premono per intervenire.
Il rilascio di terroristi palestinesi non era una soluzione particolarmente apprezzata negli ambienti israeliani; si era consci che, una volta riacquistata la libertà, tutti, indistintamente, avrebbero nuovamente rappresentato un problema per il Paese e per gli ebrei di tutto il mondo.
Il primo ministro Rabin parlava chiaramente di una democrazia assediata e, avendo più volte valutato il piano “A”, quello relativo alla trattativa, mostrava chiari segni premonitori di una attuazione del piano “B”, l’intervento militare.
Il piano studiato dai militari, dietro informazioni provenienti dai servizi di sicurezza, prevedeva di schierare un contingente di un centinaio di paracadutisti che, imbarcati su aerei Hercules C130, dopo aver percorso una rotta passante per il canale di Suez e compiuto rifornimento a Gibuti, sarebbero sbarcati all’aeroporto di Entebbe per liberare gli ostaggi, ma non senza alcuni necessari accorgimenti, a sorpresa.
L’operazione venne denominata “fulmine”, Mivtsa‘ Kadur Ha-ra’am, ed era supportata dalle parole d’ordine di “segretezza – velocità – sorpresa” sottolineate dal generale Dan Shomron, a capo dell’operazione, caratteristiche che dovevano necessariamente rappresentare il blitz.
Shimon Peres parlava dell’operazione come “la più lontana in fatto di distanza, la più breve in fatto di tempo e la più audace quanto a ideazione”. I protagonisti della pianificazione sapevano bene a cosa andavano incontro. La teoria del “rischio calcolato” venne tradotta in “rischio relativo: siamo di fronte a pericoli relativi e non abbiamo soluzioni ideali”.
I militari prescelti per l’operazione dovettero presentarsi all’adunata in abiti borghesi, viaggiando in autobus, in auto o mezzi privati. Il sabato ebraico, lo Shabbat, rivelava qualsiasi operazione militare se si fosse denoto un cambiamento delle abitudini nella vita familiare o nelle pratiche religiose. Il blitz era e doveva rimanere segreto sino all’attuazione.
Gli aerei da trasporto Hercules erano sulla pista e al loro interno venivano stipati dell’armamento necessario all’operazione comprensivo di due jeep corazzate armate di pezzi di artiglieria da 106 millimetri, un mezzo semicingolato e mitragliatrici pesanti.
“Fulmine” decollò un quarto d’ora prima della sua approvazione da parte del Gabinetto.
Era il 3 luglio. La formazione comprendeva 4 aerei da trasporto dei quali 2 per l’imbarco dei militari, uno con personale medico e l’ultimo approntato come centro di controllo, oltre a 2 jet di linea con la livrea dell’El Al che percorrevano la rotta prestabilita allo scopo di ingannare eventuali rilievi radar. Una squadra di caccia intercettori completava il dispositivo aereo.
Nel frattempo, il lavoro diplomatico svolto dalle autorità israeliane aveva consentito di ottenere l’autorizzazione, per il ritorno, a un atterraggio per rifornimenti in Kenya, località chiave per la sicurezza degli apparecchi, carichi di personale e, si sperava, anche degli ostaggi, impegnati nell’operazione “Fulmine”.
Giunti in prossimità del lago Vittoria, gli aerei da trasporto compirono, singolarmente, una manovra di atterraggio con i motori al minimo, evidenziando il ruolo chiave dei piloti impegnati a manovrare gli apparecchi riducendo al minimo il rumore dei turboelica e avvicinandosi al buio alla palazzina dove risultavano detenuti gli ostaggi.
Aperti i portelloni degli “ippopotami” (così vengono chiamati gli enormi Hercules), dal loro ventre ne uscì una Mercedes nera, del tutto simile a quella in uso al presidente Amin, a bordo della quale si trovavano i Commandos israeliani che, per l’occasione, indossavano uniformi dei militari Ugandesi. L’auto si avviò velocemente verso l’ingresso dell’aeroporto e i militari africani di guardia, scambiandola per quella del loro leader, assunsero l’atteggiamento previsto per gli onori militari, venendo subito abbattuti dalle armi silenziate degli incursori.
L’irruzione alla palazzina degli ostaggi fu fulminea. In 1 minuto e 45’’ i soldati israeliani abbatterono tutti i terroristi. Tutti meno due che, secondo numerose fonti, risultarono “dispersi”. In realtà, i due sopravvissuti, furono catturati e tradotti a Tel Aviv dove rivelarono i dettagli del dirottamento e molto altro…
Nella sparatoria conseguente all’irruzione persero la vita 3 ostaggi, uccisi dal fuoco incrociato, e 1 ufficiale israeliano, il tenente colonnello Yonni Netanhyau, fratello dell’attuale premier Benjamin.
Una donna ebrea, ricoverata prima dell’irruzione, venne uccisa dopo il suo ricovero in un ospedale ugandese, in risposta al raid israeliano.
Il successivo fuoco di risposta dei militari ugandesi, asserragliati nella torre di controllo, venne tacitato dai cannoni montati sulle due jeep d’assalto dei commando israeliani, mentre un altro gruppo di incursori si occupava di distruggere a terra alcuni Mig di fabbricazione sovietica, in dotazione all’aviazione locale, che avrebbero potuto costituire una minaccia per il decollo delle squadre intervenute.
I grossi aerei da trasporto decollarono, non senza difficoltà, da Entebbe in direzione di Nairobi, in Kenya.
In tempi record, i commando israeliani erano riusciti in un’operazione pressoché impossibile liberando 102 ostaggi su 106 in territorio ostile, uccidendo i membri della cellula terrorista e ad annullare ogni capacità offensiva della difesa ugandese.
L’identità dei 4 dirottatori iniziali era ormai nota sino dallo scalo a Bengasi. Si trattava dei terroristi tedeschi Gabriele Kroche Tiedemann, 24enne, e Wilfried Bose, entrambi collaboratori del famigerato Carlos Ramirez detto “lo Sciacallo”, e degli arabi-palestinesi Fayez Abdul Rahim Jaber e Jayel Naji al Arjam, entrambi miliziani del Fplp che avevano agito per ordine di Wadi Hadad, numero due dell’organizzazione terrorista guidata da George Habash.
L’operazione “Fulmine”rimane nella storia come quella più clamorosa e audace tra tutte le operazioni di anti-terrorismo. In soli 90 minuti tra la mezzanotte di sabato e domenica 4 luglio 1976, i soldati israeliani furono in grado di neutralizzare i terroristi di una pericolosa unità eterogenea che, in caso di successo, avrebbe portato sia alla liberazione di decine di altri miliziani che avrebbero potuto nuovamente riunirsi alle proprie fazioni, sia costituire un pericoloso ed inquietante precedente.
“Se Israele non fosse più capace di proteggersi, non avrebbe più ragione di esistere. Siamo stati costretti a ricorrere alla difesa aggressiva e le poste in gioco continuano ad aumentare. Forse, alla fine, saremo costretti a scegliere l’azione che potrebbe distruggere il Tempio dell’Umanità piuttosto di arrenderci a un membro della famiglia dei carnefici” – Yerucham Amitai, ex vicecomandante dell’Aeronautica israeliana.