Scrivo spinto dalla necessità di percorrere alcuni degli intricati tracciati che la mente umana percorre, quando percepisce la sete di sapere, avvicinandosi alla vecchiaia.
Preciserei sin da subito che appartengo a quella generazione, a cavallo del secondo millennio della nostra era, che ha avuto la possibilità di smentire le persone che affermavano senza vergogna che la rivoluzione d’ottobre ha rappresentato una speranza per il mondo. Inoltre, non ho mai condiviso le farneticazioni di Hegel sullo Stato etico che si pone come fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male e che, non considerando i cittadini come portatori di diritti, pretende di educarli.
Infine, mi irrita il pensiero unico, in aperto contrasto con quanto trasmessomi dai miei genitori, che mi hanno insegnato che come diceva Popper “Abbiamo bisogno di libertà per evitare gli abusi del potere dello Stato, e abbiamo bisogno dello Stato per evitare l’abuso della libertà” e mi spaventa la convinzione di Heidegger del 1928 che la logica formale è sprovvista di qualunque utilità.
La mia generazione è quella che ha purtroppo osservato fenomeni che affondavano le loro radici filosofiche nelle teorie esistenzialiste di Søren Kierkegaard e più tardi nella filosofia paradossale di Friedrich Nietzsche, ma che ha avuto la fortuna di raccogliere la testimonianza dei miei genitori antifascisti e di essere spettatore in prima linea all’epilogo della dittatura comunista, combattuta personalmente e condividendo quanto già stigmatizzato da Popper che riaffermava la fede nella ragione propria e altrui e che invocava l’idea di imparzialità, di tolleranza e di rifiuto di ogni pretesa autoritaria.
Il processo, certo, non è stato indolore e le ferite rimangono aperte anche ai nostri giorni. La parabola del modernismo, infatti, si è caratterizzata per un ramo discendente del postmoderno che è poi precipitato nel populismo.
In particolare, il postmodernismo affermatosi negli anni sessanta del Novecento mostrava grande scetticismo, ironia e rifiuto delle grandi narrazioni e ideologie del modernismo, spesso mettendo in discussione vari presupposti della razionalità proclamata dall’Illuminismo. In tale quadro assistevo alle fantasie di un Foucault che, cavalcando la filosofia paradossale di Nietzsche, nella rivolta contro la filosofia sistematica, e collocandosi nell’alveo delle avanguardie filosofiche del Novecento, sosteneva che il pensiero deve diventare una mascherata.
L’apprensione si è fatta sentire quando i populisti hanno realizzato i sogni dei postmoderni e, in questo passaggio dal sogno alla realtà, oggi capiamo davvero di che cosa si trattava.
Dopo i populismi-movimenti si affermavano i populismi-regimi, soprattutto in America Latina e in aree di arretratezza relativa e all’interno di una difficile transizione economico-sociale. In tale periodo i populismi hanno estremizzato il plebiscitarismo permanente e il rapporto diretto tra le masse e il capo, imponendo la mediazione politica molecolare, la pressione ideologica e la pratica clientelare da parte del partito politico al potere e dei suoi apparati.
I guasti evidenti di una simile involuzione storica intaccavano il primato dei fatti e il mito della oggettività nel nome di una presunta liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria; una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive, tuttavia, non ha avuto gli esiti emancipativi e la radicale liberalizzazione, nel mondo sociale, che immaginavano i filosofi.
I miei coetanei, ascoltando le sirene di questi filosofi che proponevano la via per l’emancipazione, come la giustificazione per dire e per fare quello che si voleva, consentivano l’affermazione di un sistema di potere che pretendeva di far credere qualsiasi cosa, compreso che la ragione e l’intelletto sono forme di dominio, che l’idea che il desiderio costituisca una forma di emancipazione e che le sensazioni del corpo costituirebbero una riserva rivoluzionaria.
Ora che nei telegiornali e nei programmi politici assistiamo ad un autocrate russo che reinterpreta giornalmente il principio di Nietzsche «non ci sono fatti, solo interpretazioni», come aveva già fatto un suo stimatore quel maledetto 5 aprile 1992 a Sarajevo, e riscopriamo con timore il vero significato del detto di Nietzsche: «La ragione del più forte è sempre la migliore».
Mi spaventa il fatto che ci sia una realtà che viene costruita da altri; noi, in veste di decostruttori e seguendo come Jacques Derrida l’invito heideggeriano alla Destruktion dei concetti della metafisica, ci ironizziamo, e, senza rendercene conto, intacchiamo qualsivoglia oggetto della cultura, applicando, cosi, l’esperienza decostruttiva ai sistemi storici e concettuali a noi più vicini: l’umanità, la solidarietà fino al sistema, che tutti ci riguarda e coinvolge, della democrazia.
Quanto alla verità, la critica, ad opera di alcuni malsani filosofi del Novecento, della oggettività come storica, violenta, determinata da schemi concettuali, si è trasformata in un argomento contro la democrazia e la libertà che non intendo minimamente assecondare.