Non esiste una differenza fra le vittime della Shoah e delle Foibe. Sotto il profilo umano si è trattato dell’omicidio di massa di persone, di innocenti sacrificati sull’altare della pulizia etnica che, come ormai ampiamente noto, è violenza allo stato puro e priva di ogni giustificazione e fondamento.
Non esiste una discriminante, neanche quantitativa. È aberrante pensare di valutare un genocidio o un massacro di massa (davvero si può dissertare di “valutazioni”?) in base al numero delle vittime. Perché, se così fosse, non si comprende il motivo per il quale lo Holodomor riceva minore attenzione, mediatica e storica, rispetto all’Olocausto malgrado i numeri delle vittime oscillino fra i 3 ed i 5 milioni di ucraini uccisi. Stessa cosa per ulteriori genocidi, anche più recenti: il genocidio tutsi (500 mila – 1100 mila morti) ed il genocidio cambogiano (1 – 3 milioni di morti) perpetrato, peraltro, con sistemi simili a quelli nazisti: lavoro fino alla morte, malnutrizione, abusi, esecuzioni sommarie, esperimenti su cavie umane, uccisione dei figli neonati dei prigionieri dei campi, ricorso alle camere a gas.
Si potrebbero inoltre definire “meno importanti” il genocidio di 1 milione di nativi americani da parte dei coloni europei prima e degli Stati Uniti poi ed il genocidio degli Indios? O, ancora, le vittime africane della tratta araba ed europea degli schiavi (circa 12 milioni) e le vittime europee (1 milione) della tratta degli schiavi musulmana, quest’ultima condotta dall’Islanda alla Sicilia senza che, però, nessuno ne abbia mai fatto cenno.
Non esiste una discriminante razziale. Le vittime di un genocidio e di un massacro sistematico hanno pari dignità, soprattutto se a lungo dimenticate. Mai sentito parlare del genocidio circasso? O, in una epoca in cui si fa tanto parlare di “diritti delle donne”, chi ricorda la secolare tratta delle donne europeo-orientali, siriane e libanesi nei paesi arabi? E’ ancora in corso, con migliaia di donne che spariscono dalla circolazione nel silenzio generale ed il fatto che invece di essere uccise sono ridotte in schiavitù non è attenuante.
Non esiste una declinazione ideologica. Sotto il profilo ideologico, il nazismo fu un grande bluff: il Mein Kampf non esprimeva concetti nuovi, recuperava semmai nazionalismo esasperato e pangermanesimo che, loro malgrado, nella Germania sconfitta del primo dopoguerra riuscirono a fare presa. Ai tedeschi battuti, ridotti in miseria e desiderosi di rivalsa occorrevano un nemico ed un capo. Il nemico: gli ebrei. Il capo: Hitler. Il magistrato tedesco di origine ebraica Fritz Bauer si accorse, negli Anni Sessanta, che la maggior parte dei carnefici dell’Olocausto era fatta di gente comune. Sì, i capi del nazismo finirono impiccati a Norimberga, ma gli esecutori degli ordini, quelli che quotidianamente perseguitavano, uccidevano, torturavano, vessavano gli ebrei nelle città, nei ghetti ed infine nei lager erano persone assolutamente comuni che, fra il coraggio di dire no e l’adeguarsi a leggi criminali e sanguinarie, scelsero la seconda opzione. Con il senno di poi i popoli ricordano sempre di essere stati vittime di qualcuno. Peccato che i regimi si reggano in primis sul sull’indifferenza e sulla convenienza, sulla condivisione e sulla partecipazione. Poi sulla paura. E, caduti i regimi, i popoli, le loro responsabilità, tendono a dimenticarle rapidamente.
Non esiste una strumentalizzazione. La Storia, in Italia ma non solo in Italia, è ostaggio della politica. E, a fronte di una generale scarsa conoscenza della materia, la politica la fa da padrone inducendo le persone a credere che vi siano ricorrenze degne di essere rammentate ed altre etichettate come “strumentalizzazioni”. La prosopopea attorno al Giorno del Ricordo come “attacco alla Resistenza” non regge perché il potere di Tito si consolidò proprio con una campagna di pulizia etnica che colpì tutte le etnie e le minoranze che avrebbero potuto rappresentare un ostacolo alla sua forza, dagli Italiani agli albanesi del Kosovo, dai serbi monarchici ai croati, ai bosniaci, agli sloveni. Pulizia etnica, appunto, “prassi” che in fondo fa parte della storia e dell’identità di quell’angolo di mondo sin dai tempi della battaglia della Piana dei Merli.
Italiani… anti-italiani. Che non siamo mai stati popolo è vero: nel 2023 siamo infatti ancora divisi fra guelfi e ghibellini, fra “piemontesi” e “borbonici”, fra “fascisti” ed “antifascisti”. Inoltre siamo soliti ricordare ciò che ci fa comodo e che può tornare utile alla strumentalizzazione od al “giustificazionismo” arte, quest’ultima, nella quale – va riconosciuto, gli italiani sono maestri. In fondo, se il Sud non decolla la “colpa” a chi va? Ma al Regno d’Italia nazione che, nel secolo successivo, sarebbe stata liberata dai soli mentre gli Alleati, magari, se ne stavano in vacanza a Cancun. Rammentiamo di commemorare zingari e sinti morti nei lager con gli ebrei, trovando poi innaturale ricordare gli italiani vittime delle Foibe. Eppure in questo Paese sentimenti quali l’anti-ziganesimo sono ancora radicati, seppure ammantati di buoni sentimenti… Ma, crediamo, neanche i sostenitori dell’integrazione parcheggerebbero di fronte ad un campo nomadi… Pregiudizi duri a morire, l’importante è che nessuno lo sappia.
Si può al contrario inveire contro gli “infoibati”, senza suscitare quello sdegno battagliero (e giusto) che si solleverebbe contro i negazionisti dell’Olocausto. Lo ripetiamo, sono due tragedie che meritano il medesimo ricordo, così come la strage di Vergarolla merita la stessa dignità di quella di Bologna ed è necessario iniziare a dirlo, a voce, alta anche dal palco di Sanremo. Perché l’unica cosa che fa davvero scandalo, in un Paese di conformisti, è dire ciò che non si vuole sentire.
Scatti d’ira, abiti succinti, atteggiamenti da ribelli da salotto sono cosa trita e ritrita. Sempre a spese dei contribuenti, chiaro.