“La costruzione del nuovo stato socialista impose di epurare minoranze etniche e religiose potenzialmente scomode per la stabilità del regime”. Lo afferma il giornalista Marco Petrelli, co-organizzatore e moderatore di “Balcani, nazionalismo e pulizia etnica dalla Seconda Guerra Mondiale al Kosovo”, evento patrocinato dal Comune di Terni in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo, di cui Ofcs.Report è media partner.
Petrelli, perché parlare del Kosovo nel Giorno del Ricordo?
“Non del Kosovo ma di mezzo secolo di Balcani, dall’invasione italo-tedesca del Regno di Jugoslavia all’intervento Nato del 1999. Un iter necessario per capire le Foibe e gli altri casi di violenza su larga scala avvenuti durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Casi che non possono essere liquidati come azioni di ‘giustizia’ sommaria”.
Si spieghi meglio…
“Le polemiche degli ultimi giorni sulla liceità o meno di commemorare le vittime italiane di Tito hanno, come sempre, tirato in ballo elementi e accuse che fanno parte della retorica di partito più che dello studio storico. Tito, dunque, avrebbe ucciso perché comunista e perché anti-italiano? Oppure no, non ha mai alzato un dito sulle comunità italiane di Istria e Dalmazia se non per punire collaborazionisti? In realtà l’ideologia c’entra poco con eccidi che sì, ci sono stati e che sono impossibili da negare”.
E quale fu il movente secondo lei?
“La costruzione del nuovo regime. Dopo il riconoscimento del suo esercito da parte degli Alleati e di Re Pietro II, Josip Broz gode di quella legittimità nazionale ed estera che gli è necessaria per edificare la repubblica socialista. Allora apparve chiaro che la monarchia non sarebbe mai tornata e che il prestigio e il sostegno al politico croato avrebbero garantito la sua ascesa al termine delle ostilità. Tuttavia la guerra aveva palesato le profonde rivalità etniche che, da secoli, infiammavano quell’angolo di Europa orientale: cetnici, musulmani bosniaci, Ustascia croati, albanesi del Kosovo andavano eliminati perché nemici. Poi ci sono minoranze magari non compromesse con l’Asse, ma comunque critiche nei confronti del regime e quindi sottoposte a medesimo trattamento: ridurle al silenzio, sottometterle o epurarle. Vedi le Foibe. Una prassi già applicata da tedeschi e russi in Polonia: i primi trucidarono gli intellettuali (oltre che a milioni di civili inermi), i secondi deportarono ufficiali e professionisti in Siberia o li uccisero come accaduto a Katyn. Nel caso polacco non si trattava di una minoranza etnica, vero, semmai di una minoranza sociale di figure professionali indispensabili ad un paese, eliminata dunque con lo scopo di cancellare definitivamente la nazione polacca e di asservirne la popolazione. ”.
Vede un parallelismo fra la politica repressiva di Tito e quella di Milosevic?
“Un filo rosso, più che un parallelismo. Entrambi erano infatti consapevoli che repressioni ed epurazioni ai danni di serbi, albanesi, croati erano vecchi di secoli, e periodicamente perpetrate sotto la dominazione ottomana e sotto quella asburgica, Inoltre, neanche la nascita del Regno di Jugoslavia aveva spento fiamme di nazionalismo che erano sempre pronte ad esplodere: non a caso re Alessandro I fu vittima proprio di nazionalisti croati che, nel 1934, lo assassinarono a Marsiglia. In altre parole popoli talmente diversi che per essere tenuti uniti avrebbero avuto bisogno di una forte autorità centrale. Ecco allora che in Kosovo Tito attua due politiche: repressione da un lato, tentativo di risollevarne l’economia e di garantirne maggiore autonomia amministrativa dall’altro. Ma non servì perché, alla sua morte, quelle spinte locali portarono a nuove tensioni poi sfociate nei conflitti degli Anni ’90. Milosevic segue una strada più radicale: guerra alla Slovenia e alla Croazia quando rompono, democraticamente, l’unità della Federazione. Le vittime, poi, sono tutt’altro che fascisti o collaborazionisti: sono i civili di Vukovar caduti a migliaia nel corso dell’assedio e sono i musulmani bosniaci trucidati a Sebrenica”.
Fra alcuni storici è diffusa la convinzione che le Foibe furono invece una vendetta…
“Le convinzioni diffuse sono, purtroppo, numerose e talvolta non supportate da oggettività. Ad esempio c’è chi sostiene che celebrare il 10 febbraio voglia dire negare le violenze dell’Asse in Jugoslavia, rifiutando di accettare che le crudeltà perpetrate contro gli italiani siano state ‘giustizia’. In verità da alcuni anni il sito dell’Esercito Italiano ha pubblicato la lista del materiale d’archivio consultabile, come il fondo H8 “Crimini di guerra” , 105 buste conservate presso l’archivio dell’Ufficio Storico S.M.E., contenente informazioni su delitti compiuti sia contro militari e civili italiani sia da militari italiani contro le popolazioni occupate. Inoltre, la Camera dei Deputati mette a disposizione dei ricercatori i documenti del cosiddetto Armadio della Vergogna, fra i quali la lista dei criminali di guerra italiani in Jugoslavia liberamente consultabile. Quindi nessuno nega, si sostiene semmai che la tesi della vendetta lasci il tempo che trovi”.