Furono tra 300 mila (secondo la “Questura”) e 7 milioni (secondo gli esagerati, ma chissà quanti, esagerati) le vittime di quella che poco più di 50 anni fa passò alla storia come “Rivoluzione culturale”, un estremo tentativo del ben noto criminale di guerra Mao per affossare le timide riforme che il regime cinese, dal 1966 in poi, aveva tentato di mettere in atto a seguito del c.d. “Grande balzo in avanti”, che di morti, invece, ne fece 14 milioni (dati ufficiali del regime cinese), mentre per gli oppositori furono 30 milioni, forse più.
A questo termine, nauseabondo è terrorizzante, fa riferimento oggi uno dei grandi vecchi del giornalismo nostrano, Paolo Mieli, che da direttore de La Stampa – dal ‘90 al ‘92 – e poi de Il Corriere della Sera – dal ‘92 al ‘97 – fu tra i protagonisti della caduta della tanto vituperata Prima Repubblica. Il giornale da lui diretto – e non lo dicono le illazioni postume e revisioniste, ma l’evidenza – assieme agli altri giornali dell’epoca (la Stampa di Ezio Mauro, la Repubblica di Scalfari, ma anche L’Indipendente di Vittorio Feltri) – fu protagonista (diamo la colpa al “fato”) di titoli, occhielli, spalle (c’è Google per capire), tutti esattamente speculari. Quel galantuomo di Filippo Facci, allora in prima linea durante Tangentopoli, non ne ha mai fatto mistero, rivelando a più riprese una presunta macchinazione della stampa in appoggio alla Procura di Milano e tutta volta all’affossamento del “regime” dell’epoca.
Poco importa se la rivoluzione “culturale” del 1992-1994 abbia prodotto decine di migliaia di indagati e imputati poi assolti. Poco importa se molti di loro hanno concluso quelle vicende con una assoluzione. Alcune stime (sulle quali il Ministero della Giustizia ancora non sa fornire dati precisi) parlano del 60-70%, ma probabilmente il numero va visto al rialzo.
In sfregio ai più elementari e chiari dettati costituzionali, gran parte della stampa di allora, compreso Paolo Mieli – allora direttore del giornale più venduto dell’epoca, e di oggi – finì per dipingere come definitiva una realtà processuale tutt’altro che chiara e lampante. Poco importa se, sopraffatti dalla vergogna, Gabriele Cagliari, Sergio Moroni, Raoul Gardini, preferirono farla finita lì, suicidandosi, e ponendo fine alla loro esistenza terrena.
Con quale autorità, oggi, certe persone ci vengono a parlare – e ripresi con tutti gli onori del caso (ma quale caso?) dai siti di informazione – di “rivoluzione culturale” è un mistero tutto italiano, specialmente da parte di chi, come il buon Mieli, oggi rivolge tale appello a Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ovvero i protagonisti politici più lontani culturalmente da quel passaggio storico e tragico che oggi Paolo Mieli, forse distratto dalle conseguenze che certi fasi storiche hanno prodotto, va evocando.