“Nel mezzo del cammin di nostra vita”… chi è l’autore? Può apparire assurdo, ma qualcuno non sa chi sia l’autore della Divina Commedia. Qualcuno che si è perso nella selva oscura di una dimenticanza momentanea? O forse che, dopo qualche secondo, risponderebbe, come alla maturità, con un diplomatico “mi sovviene” per non incappare nell’ira funesta della commissione?
Il “mi sovviene” è invece rimasto cacciato in gola ad una influencer (insegnante, a suo modo, di “corsivo”) inciampata, rovinosamente, sul Padre della Lingua italiana.
Ai miei tempi si sarebbe usata una metafora ben precisa: “Roba da sotterrarsi”. E invece no, nel 2022 la colpa ricade sulla Scuola. In un articolo de L’Huffington Post, infatti, è alla Scuola italiana che si attribuirebbero scivoloni quali il sopracitato ed il “non so chi sia Strehler”.
Dunque, non scandalizzarsi per l’ignoranza dei singoli, cercare semmai un capro espiatorio. Quanto alla eclatante lacuna produce l’effetto contrario: non indigna ma aumenta l’interesse per l’ “insegnante di corsivo”, che peraltro di originale ha ben poco se si considera che lo parlava già, quattro decenni or sono, l’attore Guido “Dogui” Nicheli: “Con il cibo esotico il Sun lover si esalta”, “la vedo in una situazione very dangerous”, “Milano-Cortina in un giro di Rolex”.
Battute memorabili, entrate nel cuore di milioni di fan malgrado la critica e l’intellighentia nostrana le abbiano per decenni bollate come espressioni da film trash. Gusti a parte, però, “Dogui” faceva ridere perché quell’esasperata parlata sfotteva la figura del gagà milanese, presuntuosa quanto ridicola e forse proprio per queste sue caratteristiche divertente. Espressioni made in Milan riprese, negli Anni Duemila, da Il Pagante, con il medesimo spirito burlone: “Così trash il suo identikit, resterò prigioniera per sempre nell’area cheap”, “le coppie resistono solo per l’hype. Ready for shopping before Christmas night”
Nulla di nuovo, quindi, malgrado social (e stampa) vogliano presentarci il corsivo quasi fosse una cosa seria, un trend che rivoluzionerà la quotidianità dei giovani italiani. Sì, come no, forse fino a settembre…
Ma come affidare i “giovani” a persone che non conoscono Dante?
In un articolo del 1° luglio, il giornalista dell’ HP Mauro Suttora prova a dare una spiegazione:
Da Fedez a Elisa Esposito, senza il nozionismo è tornata l’ignoranza
Ponendosi anche una domanda nel sottotitolo:
Cosa si insegna nelle scuole se amabilmente una tiktoker può confessare di non conoscere l’autore di “Nel mezzo del cammin di nostra vita”?
Interrogativo al quale proveremo a rispondere…
Chi scrive non è un secchione impenitente, né un docente di scuola superiore tantomeno di “corsivo”. E’ una persona che ama la Cultura pur non avendo particolarmente amato la Scuola. Cosa che a molti apparirà paradossale eppure, chi scrive, non è forse l’unico ad apprezzare la conoscenza, conservando un ricordo meno bello di banchi ed interrogazioni.
Ma Cultura è innanzitutto obiettività ed analisi critica della realtà dunque, seppure la Scuola rappresenti una memoria poco piacevole, è altrettanto lecito difenderla sopratutto in una fase storica in cui il suo valore educativo è stato calpestato ed il suo ruolo formativo degradato.
E non dai colleghi di altri giornali, sia chiaro! Ma dai “cacciatori di consenso”, che in campagna elettorale ne parlano quale laboratorio culturale e sociale fondamentale, per poi privarla dei mezzi e delle risorse necessari a farle svolgere la sua vera funzione: fornire strumenti per costruirsi una Cultura.
Pensare infatti che un diploma in tasca sia sufficiente a sfornare sapienti è ingenuo ed a tratti comico. Eppure convinzione diffusa e radicata da tanto tempo se si pensa che, agli inizi degli Anni Ottanta, la trattò anche Paolo Villaggio in una celeberrima sequenza di un suo film:
“Perché tu sei colto?” domanda l’impertinente hippy Franchino.
“Io…. Io ho un diploma” risponde, sommesso, il ragionier Fantozzi seduto su un vecchia tazza da gabinetto.
Nella decennale, manichea e superficiale divisione “somari” e “virtuosi”, “bravi a scuola” e “così così”, “diplomati” e “terzamedisti”, intere generazioni sono cresciute con l’idea che la Scuola forgiasse sapienti. In altre parole, se hai il titolo sei per forza un saggio.
Fosse vero, nessuno cadrebbe su “nel mezzo del cammin di nostra vita”, né un Senatore scriverebbe “Beppe insieme a Gianroberto ci hanno regalato un sogno”, come si legge nel pezzo di Suttora.
Ma se il popolo è ignorante e si lascia suggestionare da media, politici e social, la Scuola può fare ben poco per aiutarlo. “Ministero bancomat” insieme a Difesa e Sanità (tutti dicasteri importanti, finché non c’è da fare tagli “necessari”), il MIUR è probabilmente il più politicizzato: insegnare significa anche veicolare concetti, posizioni, interpretazioni che orientano il discente verso un certo modo di pensare, di concepire il passato ed il presente e di comunicare con il mondo esterno. E poter elaborare programmi di studio, scegliere materie e testi rappresenta una grande opportunità per plasmare coscienze votate ben poco alla libertà di pensiero e molto al consenso.
Un esempio? Prima di spiegare le differenze di genere, l’integrazione, l’antirazzismo, la guerra sarebbe necessario approfondire questi temi, analizzarli sotto un profilo storico, antropologico e culturale affinché, attraverso le cause storiche, si possano valutare criticamente le conseguenze del presente e trovare, magari, spunti per le soluzioni del futuro.
“Spero per allora di essere già morto”, fu la laconica risposta di Winston Churchill al Rettore del Massachusetts Institute of Technology a margine di una conferenza, nel 1946. Accolto come il salvatore del mondo libero per l’impegno profuso dal suo gabinetto e dalla Gran Bretagna nella guerra ai nazisti, Churchill rimase turbato dall’augurio del Rettore: un mondo senza più guerre che sarebbe funzionato come un meccanismo perfetto. Se il primo auspicio era più che condivisibile, il secondo faceva (e fa) venire la pelle d’oca: la perfezione si raggiunge quando nessuno ha più nulla da dire. E se nessuno può più dire o contestare qualcosa, quelle perfezione puzza di totalitarismo. Ecco spiegata la risposta di Sir Winston.
Poche risorse, poco tempo, organico ridotto, stipendi da fame, programmi all’osso: la Scuola fa quello che può a fronte di problemi sedimentati e di nuovi ostacoli rappresentati da famiglie assenti, poco inclini ad educare i loro figli alle regole di base del vivere civile ed ancor meno disposte ad accettare critiche sul rendimento e sull’ operato dei loro ragazzi.
L’insegnante, inoltre, non è padre, amico, fratello, è semmai l’allegoria di ciò che, un domani, saranno il datore di lavoro ed il capo ufficio, figure molto meno tolleranti di insegnanti e presidi. Anche perché, in quel domani, mamma e papà potranno fare ben poco per darti una mano in situazioni di difficoltà.
Ulteriore errore commesso in anni di (fallimentari) riforme scolastiche, è stato elevare quasi tutti gli istituti superiori al rango di Liceo: Liceo tecnologico, Liceo scienze umane, Liceo musicale, Liceo economico, Liceo psicopedagogico. Un sistema che, da un lato, illude lo studente di ricevere una preparazione specifica in un mondo del lavoro ormai intasato di diplomati e di laureati e con poche prospettive, dall’altro crea solo una gran confusione. Il liceo è una cosa, gli istituti tecnici un’altra. Essi hanno pari dignità (il valore di un uomo non si misura con la conoscenza meccanica o del greco) e, dal 1978, danno tutti accesso all’Università. E chiamarli liceo è la bieca ed irresponsabile accettazione di un falso ed orrendo luogo comune che vorrebbe i licei come le scuole dei ricchi e dei bravi, mentre i tecnici le scuole dei “pori me”.
Dunque, gli scivoloni della prof di “corsivo” dipendono poco dal mancato nozionismo e molto da un generale regresso della Società, amplificato dai falsi miti dei social e della televisione e dall’incapacità di un Paese, culla della cultura mondiale, di valorizzare il suo patrimonio storico-artistico-culturale ed il suo patrimonio umano. E i risultati sono evidenti: le teste migliori costrette ad espatriare, mentre da noi restano influencer ignare di Dante. O, ancora peggio, cinque secoli di relazioni diplomatiche, commerciali e culturali fra Italia e Russia mandate all’aria da un diplomato del classico di Pomigliano che non sa dove sia Matera… figuriamoci Mosca!