Ci sono diventati antipatici anche i cavalli. Al centro di un infuocato servizio de Il Fatto Quotidiano del 14 giugno, “Gare, liti e spese pazze. L’Esercito si è beccato la”febbre da cavallo”, finisce il Centro Militare di Equitazione di Montelibretti, eccellenza formativa e sportiva dell’Esercito, oltre 500 ettari alle porte della Capitale.
Malgrado elementi importanti dell’articolo, tralascerò le parti giudiziaria e pecuniaria: la prima, perché se è stato aperto un fascicolo d’indagine è giusto che la magistratura lavori serenamente; la seconda perché quando si parla di denaro è sempre bene avere sotto mano dati assolutamente precisi. Non avendoli, sorvolo.
Posso affermare invece come sia vero che l’equitazione abbia i suoi costi: spostare una squadra, attrezzature, cavalli da Roma a Samarin, a Saint Tropez, a Cervia financo alla più vicina Arezzo costa e non bisogna essere esperti per comprenderlo. Inoltre, la sua natura un po’ di nicchia, decisamente meno popolare del calcio (che ha comunque un giro d’affari milionario) e, forse, l’essere meno sentita dalla gente, ne fa una disciplina sportiva avvertita dai più come “giocattolino per ricchi”. Non è così…
Chi scrive si occupa di equitazione, quale giornalista e come fotografo, ed ha avuto modo di conoscere da vicino le realtà equestri diverse. E talvolta difficili da distinguere: sul campo di gara, infatti, sono tutti atleti e gareggiare per una scuderia piuttosto che per una Forza Armata agli occhi dei giudici, del pubblico e degli appassionati fa poca differenza.
Conta il cavaliere/amazzone anzi, il binomio! Infatti, se nel calcio l’attenzione è ormai concentrata manco più sulla squadra, semmai sul top di gamma pagato fior di milioni al calcio mercato, nell’equitazione cavallo-cavaliere/amazzone sono binomio inscindibile. La vittoria è di entrambi, la sconfitta è di entrambi.
I cavalli costano, bella scoperta! E neanche poco: un conto infatti è praticare lo sport da amatori o da atleti che non possiedono direttamente l’animale, un altro essere un club che dispone e mantiene una scuderia, allena cavalieri ed amazzoni e, ad ogni concorso, paga le quote di iscrizione.
Situazione in fondo non diversa da quella dei club calcistici: se promossi, tanta festa in piazza va bene, ma poi arriva il momento di tirare fuori gli “schei” per l’iscrizione alla categoria superiore! E, nel caso del professionismo, non sono pochi… gli “schei” da cacciare fuori!
Ora, che molti atleti vestano l’uniforme delle Forze Armate e dei Corpi armati dello Stato (P.S. , Polizia Pen, Guardia di Finanza) è cosa nota. E noi, adolescenti negli Anni ’90, abbiamo tifato per il carabiniere sciatore Alberto Tomba o ci siamo emozionati a quel “Alé Antonio che sei il più forte del mondo!” di Giampiero Galeazzi, rivolto al campione mondiale di canottaggio, il finanziere Antonio Rossi. Ancora, i nostri genitori ricordano con orgoglio l’Italia sulla vetta del mondo con i salti dei fratelli D’Inzeo, uno ufficiale di cavalleria dell’Esercito, l’altro ufficiale dell’Arma dei Carabinieri.
A chi ha più memoria, infine, resterà scolpita nella mente l’immagine di Cannavaro, Del Piero, Galante e Del Vecchio con il fez da bersagliere: campioni con le stellette, nei ranghi della Nazionale militare di calcio dell’Italia (sciolta il 1° luglio 2005), detentrice del record di vittorie nella storia sportiva italiana con 8 titoli mondiali di categoria.
Nel caso del Centro Militare di Equitazione si formano atleti dell’Esercito (e non solo dell’Esercito) che partecipano alle maggiori competizioni mondiali, non ultimo il CSIO***** Piazza di Siena Master “D’Inzeo”. Fra loro Alberto Zorzi, top rider dell’Esercito, fra i più noti e blasonati cavalieri a livello internazionale. Quasi fosse la cosa più naturale al mondo, nel corso di una intervista mi disse: “Mi capita di testare i nuovi cavalli di Athina (Athina Onassis, nda). E’ una cosa che faccio da tempo: quando ce ne è uno nuovo, lo monto subito”.
Ho voluto citare Zorzi anche per un altro motivo: è vero che nel giornalismo il ricorso all’anonimato delle fonti può essere cosa lecita (specie quando sono le uniche a disposizione e non è proprio possibile citarle), ma è anche vero che quell’anonimato contribuisce a lasciare, nei lettori, più interrogativi che certezze.
Il dipendente di un’azienda, un professore a scuola, un prelato in curia, un medico d’ospedale prima di parlare dell’ente/società in cui è impiegato con i media ha bisogno di un’autorizzazione. Succede con tutti, anche con noi giornalisti qualora venissimo, a nostra volta, intervistati circa la testata per la quale scriviamo. Bene, accade pure con i militari. Dunque, quelle rilasciate a Il Fatto suonano come dichiarazioni non autorizzate. E, se anche vere, rendere pubbliche questioni interne al proprio posto di lavoro e per giunta di nascosto mi pare poco corretto.
Da giornalista e in generale da lavoratore, mi è capitato di subìre i “mi è stato riferito”, “mi hanno detto”, l’ “uccellino mi ha detto”, 9 volte su 10 senza si potesse mai sapere il nome del detrattore e come, eventualmente, rimediare al presunto errore commesso. Ecco, lasciamo fuori l’ornitologia e sfoderiamo un po’ di coraggio: perché non essersi presentati al collega de Il Fatto? Cosa si temeva? Se davvero a Montelibretti si fanno spese pazze, allora dirlo, ad alta voce e mostrandosi. Se… si fanno spese pazze.
Quanto ai volontari in ferma breve (non esistono più da anni) ricattati, chi ha lavorato nei bar ai tempi dell’università o anche chi ha fatto il giornalista rammenterà che i compiti più “infami” spettavano sempre all’ultimo arrivato. Altro che spalare la popò dei cavalli! Se durante il praticantato o sottopagati in testate online in perenne crisi, ci avessero garantito un salario fisso mensile (e continuativo), quel letame ci sarebbe puzzato meno. Perché quando sai di avere colleghi che prendono 2 euro ad articolo, prima di andare a puntare il dito su altri ti fai due domande sulla tua categoria.
Non sto criticando Il Fatto né il collega, sul quale non ho dubbi circa buona fede, onestà e professionalità.
Mi permetto solo una semplice riflessione sull’ipocrisia del mondo dell’informazione.
Quanto al CME di Montelibretti, un consiglio: fate richiesta per visitarlo. Perché l’esperienza diretta è più genuina (e forse realistica) dei “cinguettii” di anonimi passerotti…