Giorgio Napolitano: padre o patrigno della Patria? Il sistema Italia è sempre stato storicamente condizionato da personaggi che sull’ambiguità ed il trasformismo hanno fondato la propria carriera politica, curandosi ben poco della coerenza e men che mai ammettendo i propri errori riconoscendoli pubblicamente. È accaduto in ogni epoca della triste, per non dire tragicomica, storia di questa Italia nata sotto la brutta stella delle mire espansionistiche e della sete di potere di una casata francese, quella oltremodo longeva dei Savoia che, desiderosa di un regno, prese ben presto a rivolgere le proprie attenzioni al –ben più abbordabile dell’entroterra francese– suolo italico.
Dei Savoia è nota la scarsa affidabilità e lealtà, caratteristica che mai emendarono in tutta la loro storia e delle quali fin troppo spesso pagarono lo scotto le genti dimoranti nelle terre che ebbero la disgrazia di finire sotto il loro dominio fino – e se per questo pure oltre – alla (benedetta da quegli inglesi e a tratti pure da quei francesi del cui controverso contrasto per il controllo del Mediterraneo i Savoia seppero fare un buon opportunistico uso) unificazione completa consacrata dalla proclamazione del Regno d’Italia nel 1870. La cifra distintiva dei Savoia bene si è impressa nel DNA di coloro che, in tempi a noi più vicini, gli succedettero. Quella cifra coniata da Luigi XIV, Re di Francia, nel ‘700 allorché, alquanto profeticamente, disse: “I Savoia non finiscono mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’hanno iniziata”. Un trasformismo ondivago che, in tempi a noi più prossimi, indusse sindacalisti e uomini in vista della sinistra nostrana a migrare verso i ranghi del Fascismo, allorché a Mussolini arrise la vittoria, allo stesso modo in cui a frotte mutarono casacca Fascisti e Fascistelli vari allorché le sorti della guerra e con esse le fortune del Duce, mutarono corso, come bene ha documentato Paolo Buchignani nel suo libro “Fascisti rossi: da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica, 1943-53” (1998). Un libro scomodo, che molti avrebbero preferito non fosse mai stato pubblicato, un libro il cui titolo è tutto un programma in quanto “Fascisti rossi” –come pure “Fascisti comunisti” “camicie nere di Togliatti”, era una delle espressioni con cui gli avversari politici, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, stigmatizzarono i trasformisti politici che di sé amavano dire di essere “fascisti di sinistra della corrente di Pensiero Nazionale”, gente facente capo a Stanis Ruinas, gente che proveniva dalla Repubblica Sociale Italiana e che sosteneva di aver individuato nel PCI il referente politico più idoneo e affidabile per realizzare quella rivoluzione popolare e anticapitalista inseguita invano nelle file della repubblica nera che, per dirla tutta, aveva ripreso lo spirito programmatico dei Sansepolcristi, ovverosia di quei Fascisti della prima ora il cui programma era stato fonte ispiratrice del primo programma politico del neonato Partito Comunista, nato nel 1921 ai tempi del Congresso di Livorno.
C’è da credergli? Difficile dirlo. Quel che è certo è che il nostro Paese spicca nel mondo per essere un crogiolo di contraddizioni identitarie a dir poco assurde, oltre al fatto di essere uno Stato creato artificialmente dando voce a ideali disattesi sistematicamente sotto tutti i punti di vista e dove le pagine buie della storia continuano a restare nell’ombra omertosa dei roboanti silenzi delle celebrazioni commemorative, che fanno buon uso delle parole per passare sistematicamente sotto silenzio i fatti.
Così ci ritroviamo ad aver vissuto decenni all’insegna del pensiero espresso da chi ha preferito far finta di non avere un passato da chiarire, non fosse altro che per il ruolo pubblico a vario titolo assunto, usando toni censori nei confronti dei dissenzienti, toni che per pudore, se non altro, sarebbe stato più opportuno evitare come ben evidenziano un paio di eclatanti, a mio avviso, esempi.
Ecco, in questo senso, cosa scriveva Eugenio Scalfari – il fondatore di “La Repubblica”, lo strenuo sostenitore dell’immigrazione selvaggia e dello ius soli che a più riprese ha accusato di razzismo chiunque non si prostrasse dinanzi al nuovo dogma della società multirazziale – sul settimanale “Roma Fascista” del 24 settembre 1942 in un articolo intitolato ‘Volontà di Potenza’: “Gli imperi quali noi li concepiamo sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l’estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti”. Chissà cosa avrebbero detto se lo avessero a suo tempo saputo l’ex ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge, di buona memoria, o l’On. Laura Boldrini.
E che dire di Giorgio Bocca, (“sempre coerente” disse di lui Giorgio Napolitano nel celebrarlo) che non esitò a firmare il “Manifesto della Razza” e a dilettarsi a sostenere, dalle pagine della testata cuneese “La Provincia Grande”, l’autenticità dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” affermando con la perentorietà che a più riprese caratterizzò la sua penna: “A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo. Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù”. Errori di gioventù? Non direi proprio visto che proprio Giorgio Bocca, decenni dopo la guerra, ne aveva anche per i nostrani meridionali, che definì “umanità repellente”, con un linguaggio da fare impallidire anche il più becero nordista.
Siamo così finalmente giunti a Giorgio Napolitano, personaggio alquanto controverso della nostra intera storia repubblicana. Un interessantissimo saggio dello storico di formazione marxista, Perry Anderson, autore dell’interessante libro “The Italian disaster” (2014), ci racconta, con il consueto stile asciutto degli storici inglesi di alto livello, chi è stato realmente quel Giorgio Napolitano che rappresenta, incarnandola con la sua intera vita politica, la vera anomalia italiana, essendo il tipico rappresentante del trasformismo della sua classe dirigente: un trasformismo che ha indotto, tra le altre cose, lo storico inglese ad individuare a suo tempo proprio in Napolitano la vera minaccia per la democrazia italiana, una minaccia reale che i fatti non hanno smentito.
La parabola storica di Napolitano è a dir poco emblematica. Da “fervente” Fascista del GUF nel 1941, tipico eroe alla “armiamoci e partite” (ecco cosa scriveva nel Luglio di quell’anno sulle pagine del “Bo”, lo storico giornale universitario del GUF di Padova, a proposito della spedizione italiana in Russia: “L’Operazione Barbarossa civilizza i popoli slavi: dato che il nostro sicuro Alleato é lanciato alla conquista della Russia vi é la necessità assoluta di creare un corpo di spedizione italiano per affiancare il titanico sforzo bellico tedesco, allo scopo di far prevalere i valori della Civiltà e dei popoli dell’Occidente sulla barbarie dei territori orientali”) a tempo debito, cioè dopo l’8 settembre, ripara…prudentemente nella sua bella Napoli piuttosto che, dopo tante chiacchiere e proclami, imbracciare finalmente le armi (vuoi per coerenza nelle fila della RSI, vuoi con i Partigiani contro gli occupanti Tedeschi) finendo per aderire al PCI, rigorosamente a guerra finita nel 1945, da fervente Comunista ortodosso stalinista.
Infatti, nel novembre del 1956, allorché evidentemente nel suo immaginario i “barbari” s’erano miracolosamente mutati nei “liberatori” di Budapest, eccolo plaudire, senza il minimo pudore, l’intervento sovietico in Ungheria con le seguenti inequivocabili parole: “L’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente [operazione anglo- egiziana in Egitto, a Suez, con l’intervento israeliano], abbia contribuito, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”.
E poi ancora nel 1964, sempre da dirigente del PCI, eccolo, non pago, appoggiare l’espulsione dall’URSS del dissidente Solgenitsyn affermando che “solo i folli ed i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo” nonché, servile come sempre, votare a favore della espulsione dal PCI del Gruppo del Manifesto per i fatti della Cecoslovacchia salvo poi, (quindi colluso con potenza militare straniera nemica dell’Italia e della NATO –va notato questo per apprezzare la sua adamantina coerenza allorché, di fatto scavalcando il Parlamento, in ossequio alla alleanza con gli USA della Presidenza Obama, fece sì che l’Italia partecipasse al conflitto contro la Libia in barba agli accordi bilaterali con quel Paese stipulati dal nostro Paese), diventare il comunista favorito di Henry Kissinger. Il nuovo potere da coltivare era ora (nell’interesse suo o dell’Italia?) quello degli Stati Uniti d’America.
Dal fascismo al comunismo stalinista e poi al filo–americanismo: dalla mitizzazione del Duce a quella di Stalin per giungere alla mitizzazione di Craxi e del gruppo dei miglioristi (gruppo finanziato nientepopodimenoche dalla Fininvest di Silvio Berlusconi !!!!) .
Nel frattempo 1996, grazie al servilismo mostrato, diventa il primo ministro degli Interni della sinistra ed ovviamente il prezzo da pagare è l’impegno a non tirare fuori gli scheletri dall’armadio.
Comunque sia, il meglio di sé lo darà in seguito, nel 2008 allorché Napolitano, da Presidente della Repubblica (e quindi da… garante della Costituzione) firmerà il lodo Alfano, ossia quel vero e proprio indegno provvedimento con il quale garantiva a Silvio Berlusconi, come Capo del Governo, e a sé stesso, come Capo dello Stato, l’immunità giudiziaria, quel lodo Alfano che sarà poi dichiarato incostituzionale e che sarà trasformato, nel 2010, nel legittimo impedimento, anch’esso dichiarato incostituzionale nel 2011.
A queste prodezze seguirono poi altri atti alquanto discutibili, come il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, la già citata entrata in guerra contro la Libia nel 2011, gli intrallazzi con Monti e Passera per sostituire Berlusconi. Ossia, tutta una serie di azioni che con la Costituzione andavano a nozze come i cavoli a merenda. E che dire, poi, della sua rielezione al 2° mandato a 87 anni e delle più recenti, in ordine di tempo, vicende quali il siluramento del Governo Letta? E così, come se non bastasse la corruzione dilagante nel campo degli affari e della politica, con Giorgio Napolitano si arrivava alla ‘corruzione costituzionale’. E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il Presidente da parte di Salvatore Borsellino e la secretazione per tutto ciò che lo riguardava nell’ambito delle indagini sulla trattativa Stato-Mafia, al fine di garantirsi l’immunitá.
E la farsa continua alla corte di Re Giorgio che chiama al governo Matteo Renzi, insediando lui ed il suo governo in totale dispregio della Costituzione: un atto di abusivismo costituzionale vergognoso . Ma la regia era collaudata allorché nel 2011, dimessosi Berlusconi, venne chiamato l’uomo delle banche, Mario Monti!
Una storia di ordinario squallore all’italiana che ora, a tarallucci e vino, si va a concludere con i funerali di Stato.