Le elezioni europee del 26 maggio saranno diverse da tutte le altre, perché avranno – in qualche maniera – ancora un elemento della Prima Repubblica: non sono possibili coalizioni (salvo il regime speciale per i sudtirolesi) quindi ogni partito “corre” per proprio conto e in concorrenza con tutti gli altri. Così non è per il Parlamento nazionale, per le regioni, per i comuni. L’unica novità è lo sbarramento del 4%, introdotto nel 2009 per arginare il proliferare di liste minori nate (talvolta) solo per ottenere un seggio all’Europarlamento. E’ quanto scrive Luca Tentoni su LabParlamento.
La soglia fu un tentativo di razionalizzazione, perché fra il 1979 e il 2004 la percentuale minima per ottenere seggi era stata compresa fra lo 0,54 (Pri) del 1999 e lo 0,73 (FT) del 2004, con una media dello 0,63%. Va inoltre ricordato che per ottenere seggi alla Camera dei deputati, fino al 1992, un partito doveva ottenere un quoziente pieno in una circoscrizione e 300 mila voti di lista, cioè lo 0,8-0,9% nazionale; negli anni Ottanta il Psi propose uno sbarramento al 5% (anni dopo, il Pri suggerì una soglia più bassa, intorno al 3%).
La soglia del 4% per la Camera dei deputati, introdotta col “Mattarellum” nel 1993, fu aggirata con l’abbinamento di più simboli (e con la candidatura nei collegi “sicuri” degli esponenti dei partiti minori delle coalizioni) nella ripartizione maggioritaria uninominale; anche le molte soglie del “Porcellum” (4% per i partiti non coalizzati, 2% per quelli coalizzati, più l’accesso alla Camera del partito di ciascun polo che fosse riuscito ad ottenere il miglior risultato fra quelli alleati giunti sotto il 2%) non costituirono un vero sbarramento. Così, anche l’attuale legge elettorale per la Camera e il Senato (con la soglia del 3% e la possibilità di coalizioni e di candidati dei gruppi minori “paracadutati” nei collegi uninominali considerati sicuri) non ha affatto scoraggiato la proliferazione delle liste minori. La quale non è un fatto negativo, se serve a valorizzare il pluralismo politico e le reali differenze ideologiche, tutelando quelle con un seguito minore.
Altro discorso invece, è assistere ad una superfetazione di liste come quella avvenuta alle politiche e – nel caso che stiamo esaminando, quello delle europee – che ha raggiunto nel primo decennio della Seconda Repubblica dimensioni abnormi. Alla consultazione popolare del 1979 per l’Europarlamento, le liste presenti erano 13 (11 con seggi, Svp compresa); nel 1984, 11 (10 con seggi); nel 1989, 14 (13 con seggi); nel 1994, 19 (14 con seggi); nel 1999, 26 (19 con seggi); nel 2004, 25 (16 con seggi). Dopo la riforma e lo sbarramento (non aggirabile) del 4%, abbiamo avuto in lizza 16 liste (6 con seggi) nel 2009 e solo 12 (7 con seggi, Svp compresa) nel 2014. Ciò, tornando all’attualità politica, pone due ordini di problemi, in vista del 26 maggio.
Il primo è rappresentato dall’aspetto concorrenziale (da Prima Repubblica, appunto: tutti contro tutti) del sistema elettorale per le europee, che non può non incidere sulle dinamiche politiche. Sulla maggioranza gialloverde da un lato, perché Lega e M5s dovranno accentuare le differenze ed entrare in competizione fra loro (la campagna elettorale entrerà nel vivo dall’inizio di aprile, quindi avremo due mesi ad altissima conflittualità potenziale); nel campo delle opposizioni dall’altro, soprattutto a sinistra, dove la soglia del 4% pone problemi di rappresentanza a molti soggetti politici (praticamente a tutti, tranne che al Pd) e pone i leader di fronte a scelte non facili (il “listone” europeista; la riedizione dell’Unione; “competition is competition” e ognuno per conto suo?).
Il secondo riguarda solo le opposizioni, dato che Lega e M5S hanno voti più che sufficienti per superare ogni sorta di sbarramento. A destra, Fratelli d’Italia può superare il 4%, ma gli ultimi sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni fra il 4,3 e il 4,6%: un po’ poco per essere certi di giungere sicuri in porto e conquistare seggi all’Europarlamento; Forza Italia, invece, ha abbastanza seguito per oltrepassare il 4% (è stimata al 9%) ma ha un problema, quello degli alleati centristi (i quali non superano l’1%) e fanno parte del PPE come gli azzurri, quindi dovrebbero cercare di unirsi al partito di Berlusconi raggiungendo una doppia finalità: ottenere seggi e permettere al Cavaliere di raggiungere la quota psicologica (politicamente rilevante per la sopravvivenza del partito) del 10%. A sinistra e nel centrosinistra, i sondaggi indicano che l’unico soggetto oltre il 4% è il Pd, mentre tutti gli altri (Più Europa, Mdp, Verdi-Italia in comune, Potere al popolo) sono stimati (Swg) complessivamente all’8,2%, ma sono difficilmente conciliabili. La frammentazione a sinistra e quella – minore, limitata ai centristi neodc – nell’ex CDL, insieme alla fisiologica presenza di partiti pulviscolari, può provocare la dispersione di una quota di voti del 13-14% (nel 2009 fu del 13,4%, ma nel 2014 scese al 6%). In altre parole, mentre la scorsa volta i partiti nazionali maggiori ebbero il 100% dei posti disponibili col 94% dei voti (una leggerissima sovrarappresentazione), oggi potrebbero averlo con l’86% (cioè come se avessero un sesto dei voti in più – in percentuale – di quelli effettivi).