Svalutazione, crisi monetaria e calo del prezzo del petrolio. Ma l’economia non è la sola protagonista dei due principali scenari di crisi sudamericani. In queste settimane in Venezuela e Paraguay si sta consumando il dramma di due Paesi che vedono la forbice fra elite governative e popolazione civile allargarsi fino allo scontro.
Entrambi i paesi vivono un momento difficile e i bilanci statali da tempo non sono per nulla floridi, ma le rivolte scoppiate ad Asuncion e a Caracas hanno un tratto in comune: in entrambi i casi si tratta di provvedimenti governativi volti a introdurre, o modificare, leggi conservative della classe politica. E, sia in Paraguay che in Venezuela, una nuova classe dirigente spingere per ottenere maggiore spazio.
Il caso Paraguay
In Paraguay è una nuova legge di tipo costituzionale ad aver acceso la miccia dello scontro: la norma in questione cambierebbe la legge fondamentale dello Stato in favore di una rielezione dell’attuale presidente, Horacio Cartes, allo status quo non legittimato a ricandidarsi alle elezioni previste per il 2018. L’iter della legge prevede, come nel nostro Paese, più fasi, ma il Parlamento ha segnato già il primo punto in favore del disegno dell’attuale maggioranza. La prima votazione si è conclusa con il prevalere della fazione che aveva proposto la modifica costituzionale, che al suo culmine prevede comunque l’appello alla consultazione popolare. Il popolo paraguayano insomma avrebbe ancora le armi per contrastare il piano del partito conservatore, ma gli scontri nella capitale sudamericana si sono già accesi fra manifestanti e polizia. Il bilancio fa già segnare un morto e non sono mancate le accuse alla forza pubblica per un uso della violenza sproporzionato.
Il Venezuela contro Maduro
Diversa è la situazione del Venezuela, che sta vivendo ancora l’onda lunga del periodo di governo chavista. Nicolas Maduro infatti, l’attuale presidente, è il naturale erede, tra l’altro designato da Chavez stesso, per guidare il paese lungo il sentiero tracciato dal bolivarismo. Nonostante la reggenza dell’ex presidente abbia portato a una redistribuzione della ricchezza, Caracas è rimasta ancorata a un’economia legata prevalentemente all’esportazione del petrolio, materia prima di cui il Venezuela è ricchissimo. Ma l’oro nero si è trasformato presto in una zavorra per l’economia del paese dopo il crollo del prezzo del barile. Ora Caracas è infatti costretta a comprare carburante dagli Usa, in quanto il prezzo risulta di gran lunga inferiore. Con la moneta che ha subito un crollo nella sua valutazione. In questo scenario la reazione delle elite di potere venezuelane non si differenzia di quelle paraguayane. Lo scorso 30 marzo il Tribunal Supremo d Justizia, omologo della nostra Corte Costituzionale, aveva emesso un paio di sentenze con le quali spogliava d’ogni autorità il Parlamento, già dichiarato disobbediente dall’esecutivo. L’annullamento della basilare condizione democratica di un paese, la separazione dei poteri, non è però il momento più basso di questi ultimi giorni. Sollecitato da un clima sempre più surriscaldato, Maduro ha riconsiderato l’orientamento preso, invitando il Consiglio di Sicurezza Nazionale a comunicare alla Consulta venezuelana l’ordine di dietrofront. E la marcia indietro, in meno di 48 ore, è stata servita dal Tribunal Supremo, che agli occhi dell’opinione pubblica ora non è che un fantoccio del governo.
Dopo il mito ultimo del socialismo, Caracas ora vede la democrazia interna in un pessimo stato, in cui lo stato di diritto è minacciato, mentre i piani alti del governo Maduro continuano a dormire sonni tranquilli.