“America first, America first”. Donald Trump lo ha scandito due volte nel suo discorso di introduzione alla Casa Bianca sul podio del Capitol di Washington. “Non stiamo trasferendo il potere da una amministrazione all’altra, né da un partito all’altro” ha detto Trump, “ma da Washington a voi: la gente”. Gli americani e solo gli americani sono nel programma di Trump. La vittoria del candidato repubblicano è quella del popolo. Il costruttore newyorchese identifica la sua fortuna con quella degli americani.
È già un discorso muscolare il primo fatto il 20 gennaio. “Una nazione esiste perché serva i suoi cittadini”. Poi lavoro, scuola e infrastrutture. Ricostruire è la parola d’ordine, come aveva detto Trump già la notte dell’Election day quando strappò il biglietto per Washington lasciando Hillary Clinton, strafavorita, nei rimpianti di una campagna condotta con milioni di dollari di finanziamento.
“Abbiamo fatto gli altri paesi ricchi – ha detto Trump intervallato dagli applausi dei suoi supporters – mentre la forza del nostro paese spariva all’orizzonte”. Parole che lasciano poco spazio, sembrerebbe, a interpretazione. Con Trump l’interno conterà più dell’esterno.
Il succo del discorso di inaugurazione della presidenza Trump è tutto lì: il popolo americano è il centro delle parole del 45esimo presidente, quel popolo che “è stato ignorato finora e non lo sarà più a lungo”, come ribadito dal tycoon newyorchese durante le primarie per la corsa alla Casa Bianca.
“Porteremo indietro il lavoro, i confini e i nostri sogni”. Nella narrativa trumpiana sembra rispuntare fuori l’eco del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Ponti, strade e ferrovie: bisogna costruire e far ripartire l’economia. Una visione forse arcaica dell’America e della sua economia, che ruota attorno a gruppi tecnologici come quelli della Silicon Valley, ma ancora capace di affascinare le grandi platee: “Compra americano e assumi americano”.
Poi la promessa. “Sradicheremo totalmente il radicalismo islamico dalla faccia della terra”. Un’idea che Trump sembrerebbe già cominciato a mettere in pratica con le nomine alla difesa.
“Il tempo delle chiacchiere – ha chiuso Trump – è finito, ora è tempo dell’azione”. E poi l’appello all’unione, fondamentale in un paese lasciato da Obama diviso fra razze e classi sociali: “Non importa se bianchi, neri o gialli, tutti versiamo lo stesso sangue da patrioti” ha chiuso, non prima però di scandire lo slogan che lo ha portato alla Sala Ovale. “Make America great again” urla la folla salutando il nuovo leader Usa.
Il 12 marzo 1971 usciva Power to the People, il quinto singolo da solista di John Lennon. Un inno del flower power e della rivoluzione di stampo sessantottino. Il 20 gennaio del 2017, quasi dopo cinquant’anni, Donald Trump, un leader osannato dall’ultradestra in tutto il mondo, consegna al popolo le chiavi degli Stati Uniti. Un paradosso che contiene tutta la carica rivoluzionaria, per gli States ma non solo, della vittoria di Donald J. Trump.
D’altronde c’è bisogno di tutti, ha spiegato Trump. “Se siamo uniti, non ci possono fermare”.