Nel giro di ventriquattro ore, con due decisioni storiche, Donald Trump ha sancito quella netta discontinuità promessa nei confronti della politica estera del suo predecessore. Con l’annuncio del passo indietro dall’Unesco, fautore di una politica palesemente anti-israeliana e, soprattutto, con l’intenzione di rimettere al Congresso la possibilità di riattivare le sanzioni nei confronti dell’Iran, il nuovo corso di Washington è di fatto compiuto.
Non c’è da stupirsi che, dopo le incursioni sull’Obamacare e il sostanziale fallimento di ogni tentativo di riformare alcune delle più dirompenti decisioni interne di Obama, già da questa estate alla Casa Bianca l’attenzione è puntata sul fronte estero, lasciato in secondo piano ormai da anni dalle priorità dell’agenda politica statunitense. L’attivismo di Trump, dalla Corea del Nord all’Iran, traccia così il percorso di quelli che saranno i prossimi cavalli di battaglia del Tycoon. Rinnegando la vecchia e rodata strategia del contenimento, Trump, vede oggi nella politica estera un fenomenale cavallo di Troia per abbattere le ancora fortissime sacche di resistenza nel partito repubblicano e per conquistare consenso sul piano interno, la sua vera spina nel fianco di questi mesi.
America First, lo slogan mantra di Donald, è così declinato non più per tutelare le democrazie ma, molto più prosaicamente, il portafoglio dell’americano medio. La clamorosa decisione di voler decertificare gli accordi sul nucleare iraniano non si giustifica, infatti, nel mancato rispetto da parte di Teheran degli accordi di Vienna del 2015, ma semplicemente perché il patto “non è più funzionale agli interessi americani“. Una strategia, tutto sommato, che se pur non particolarmente nobile sta riuscendo con una certa efficacia a riportare l’America sul palco principale della scena mondiale.
Correggendo così le vecchie pretese di Bush che vedevano gli Stati Uniti come baluardo contro i popoli oppressi dalle dittature, l’America, proprio come ai tempi del “giardino di casa” di Nixon, torna a giocare una “guerra” tutta sua, prettamente economica e del tutto scollegata dalle principali esigenze (e contingenze) della comunità internazionale. Insomma, non c’è più bisogno, voglia e tempo di esportare democrazia. E non solo. Grazie a questo originale percorso Trump è riuscito a superare le critiche relative al suo presunto filo-putinismo sgomberando così il rischio di far apparire Washington come una mera spalla dell’attivismo del Cremlino.
Pur con la difficoltà di prevedere dove condurranno gli sviluppi di una politica così labile e palesemente autoreferenziale, è innegabile come la vecchia politica estera di Nixon abbia fatto di nuovo capolino nelle stanze della Casa Bianca. E con effetti tutto sommato non negativi sull’indice di gradimento del Presidente e della sua amministrazione.