Uno zar a Mosca, un papa a Roma e un sultano in Turchia, come nel 1600. Potremmo riassumere così l’atteso verdetto sul discusso referendum costituzionale che, di fatto, abbatte definitivamente quel sistema di check and balance che per circa un secolo ha contraddistinto la creatura laica e dai tratti occidentali di Mustafa Kemal Ataturk.
Non era in discussione il risultato. La vittoria di Erdogan e dello schieramento a favore del sì era ampiamente prevedibile, visti gli spazi, mediatici e politici occupati durante questa lunghissima campagna di primavera referendaria. Più sorprendente, al di là del responso assai risicato che ha visto prevalere Erdogan e i suoi, è il verdetto nelle maggiori città del Paese. Istanbul, la città che ad Erdogan ha dato i natali e della quale è stato sindaco a lungo, boccia con certo scalpore, la creatura del proprio concittadino. Non solo. Pure ad Ankara, dove da poco tempo sorge il maestoso palazzo presidenziale, simbolo del nuovo uomo forte del medio oriente, i cittadini hanno voltato le spalle al sempre più potente rais.
Dati sorprendenti, è vero, ma ancora minimi se si paragonano a quelli dei quasi un milione e trecentomila turchi all’estero, specialmente dei turco-tedeschi, la più grande comunità turca fuori dai propri confini. Proprio laddove il progresso e l’aria di libertà dell’Europa avrebbe fatto pensare ad un elettorato più maturo e, in ugual modo, più critico verso le sterzate autoritarie ed islamiste in voga nella lontana madre-patria, il consenso di Erdogan cresce e si rafforza, fino a diventare determinante, con percentuali altissime. Germania, Olanda e Austria, i paesi tra i più democratici e liberali del continente, hanno invece inferto all’opposizione del Presidente una dura lezione.
C’è chi quel 49 per cento di turchi indomabili e irriducibili lo avrebbe voluto in Europa, quantomeno prima che Erdogan, dopo anni passati a rappresentare l’anima moderata dell’islam continentale, decidesse, dopo più di 200 anni, di volgere l’orizzonte non più ad ovest, come Kemal avrebbe voluto, ma a oriente. E che il risultato determinante sia arrivato proprio all’interno di quei paesi che, più di altri, sono entrati in rotta di collisione col nuovo regime di Ankara è, per Erdogan, una doppia soddisfazione: doppia perché, in un colpo solo si vendica di chi, circa dieci anni fa, ancora non vedeva maturo il tempo per un negoziato Ue-Turchia e, aspetto più interessante, soprattutto di quei governi i quali, per impedire il proselitismo del rais, aveva addirittura ingaggiato una guerra diplomatica a suon di divieti e diffide con tanto di carte bollate.
Per le riflessioni, e per i rimpianti soprattutto, è tardi. Se la Turchia oggi è una nazione che volge all’autoritarismo e all’islamismo è anche – diciamolo – colpa dei suoi più immediati dirimpettai, o meglio, di quell’Europa miope la quale, per anni, ha fatto finta di non accorgersi degli straordinari progressi che questo paese stava, mano a mano, portando avanti per avvicinarsi agli standard europei. Oggi quella primavera turca, mai sbocciata, appare lontana. Non è un segreto: ci vorranno anni e forse decenni per recuperare il tempo perduto. Quantificare è difficile, specialmente se il cumulo di mandati di Erdogan, cosa ancora non chiara, venisse azzerato, aprendo così la strada ad un altro decennio di potere incontrastato.
@simsantucci