La Forza militare di interposizione dell’ONU, denominata Unifil, venne creata nel 1978 allo scopo di assicurare l’effettivo ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano e scoraggiare il riarmo delle milizie sciite aderenti all’organizzazione terroristica di Hezbollah, allo scopo di creare una sorta di zona cuscinetto tra lo Stato ebraico ed il Paese dei cedri e tutelare la popolazione civile da eventuali sortite di una delle due parti.
La nascita della missione ONU
Nel 1982, a seguito del tentativo di assassinio perpetrato da al Fath (o al-Fatah) contro l’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna, Shlomo Argov ed in risposta ad attacchi multipli da parte dell’OLP contro il nord di Israele, l’allora Premier di Gerusalemme, Ariel Sharon, ordinò all’esercito israeliano di penetrare in territorio libanese e di indurre i seguaci di Arafat ad un ritiro al di là del fiume Litani.
Ciò realizzato, le truppe israeliane procedettero ad un progressivo ritiro dal sud del Libano anche sotto la tutela della missione di interposizione internazionale dell’ONU, preposta al monitoraggio della situazione ed all’accertamento degli accordi intercorsi tra le parti in conflitto.
Tra i vari punti di cui si fece garante l’ONU, vi era quello di un effettivo riscontro, attraverso la missione di pace, di un disarmo dei miliziani stanziati nella zona cuscinetto. Ma, nell’autunno 1983, un duplice attentato esplosivo perpetrato da Hezbollah, provocò la morte di oltre 200 Marines statunitensi e di 50 militari francesi appartenenti alla Legione straniera. Il contingente italiano venne sorprendentemente risparmiato dagli attacchi.
A fronte dell’accaduto, le forze di interposizione si ritirarono dal Medio Oriente pur nella prospettiva di un acuirsi delle tensioni.
Nel 2000, avendo ricevuto assicurazioni di un “cessate il fuoco” da ambo le parti, l’ONU stabilì l’invio di una nuova e più numerosa forza militare di pace reiterandone i compiti di vigilanza e osservazione del rispetto della cosiddetta “linea blu”, il confine prestabilito dagli accordi tra Israele e Libano. (vds. anche “La Repubblica – Gli Usa e una UNIFIL anti-iraniana il fronte più caldo per gli italiani, di Francesca Caferri, 27 agosto 2020, pag.15)
Questa, in estrema sintesi, la storia dei Caschi blu di stanza in Libano, ma i tragici eventi del 7 ottobre 2023 con la strage indiscriminata di civii israeliani perpetrata dai terroristi di Hamas, in concomitanza con gli attacchi multipli condotti da Hezbollah con l’uso di razzi e missili a varia gittata, sono molti i dubbi emersi sull’effettiva operatività e, soprattutto, sulla reale equidistanza tra gli “aggressori” e gli “aggrediti” da parte del personale della missione di interposizione.
E qui vorremmo proporre alcune illazioni, non volendo stendere un velo pietoso sulla condotta della nostra politica estera.
Innanzitutto intendiamo partire da lontano, dalla strage di militari delle forze ONU all’epoca stanziate a Beirut ovest, condotto nell’ottobre 1983 dai terroristi di Hezbollah dietro l’input di Fuad Shukr, già personaggio di vertice di quella formazione già operativa, ma la cui costituzione ufficiale avvenne solo nel 1985. Un camion riempito di ben cinque tonnellate di esplosivo venne fatto esplodere nei pressi del compound dei Marines americani mentre, pochi minuti dopo, un altro ordigno colpì la caserma francese. Il tragico bilancio fu di 241 Marines e 58 Legionari d’Oltralpe morti a seguito delle esplosioni. Il contingente italiano, seppur presente in forze, uscì illeso dall’offensiva terroristica.
La triste storia di una politica estera condotta dalla “parte sbagliata”
A distanza di anni, per coloro i quali non siano al corrente degli eventi storici legati alla crisi mediorientale decorsi in Italia fino dagli anni ’70 del secolo scorso, intendiamo ripercorrere la sciagurata posizione politica mantenuta dai governi succedutisi nei decenni alla guida del nostro Paese.
In quel periodo il mondo assistette ad un’evoluzione del terrorismo palestinese che, ben conscio che i reiterati attacchi dei vari eserciti arabi avevano condotto a conseguenze nefaste ed alla perdita di territori indotta dalle vittorie dell’esercito israeliano, si convinse ad attuare un deciso cambio di strategia, ricorrendo ad una guerra “non ortodossa”, ossia ad avviare una serie infinita di attacchi contro obiettivi di Israele, ovviamente civili, per convincere Gerusalemme ad una sorta di resa senza condizioni ed alla cessione della terra di Palestina alle popolazioni di etnia araba stanziate nei territori contigui.
Tale input era frutto di delirati dichiarazioni del leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, che dalla metà degli anni ’60 intese proporre una sorta di insurrezione generalizzata delle popolazioni “palestinesi” contro “l’occupante sionista”. La storia, come ben noto, racconta vicende ben diverse in relazione allo stanziamento del popolo ebraico in quella che geograficamente è chiamata Palestina. É da sempre mancata la sussistenza di uno “Stato palestinese” che non fosse quello ebraico, divenuto entità statale a partire dal lontano 1948, allorquando, successivamente agli scontri reiterati tra arabi ed ebrei sotto l’egida dal “mandato britannico della Palestina”, l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò un “Piano di partizione della Palestina” in base al quale veniva ufficializzata la nascita di uno Stato di Israele e di uno arabo. Tale decisione venne da subito osteggiata sia dagli arabo-palestinesi sia anche dagli Stati arabi confinanti. La nascita ufficiale di Israele venne conclamata il 14 maggio del 1948 la cui popolazione comprendeva sia gli ebrei nati in Palestina, i cosiddetti “Sabra”, sia quelli reduci dall’olocausto perpetrato dai nazisti durante la II Guerra Mondiale, provenienti dai Paesi europei.
Due popoli due Stati, una prova dell’estremismo anti-israeliano
In più occasioni gli stati arabi tentarono di sottrarre al popolo ebraico i territori assegnati con una serie di blitz culminati nella “Guerra arabo israeliana”(1948), in quella denominata “Guerra dei sei giorni” (1967), quella del “Kippur” (1973) per sfociare nella “Prima intifada” (dall’arabo – rivolta), una guerriglia indiscriminata contro Israele che coinvolse entrambe le popolazioni civili. In tutti i casi, Israele, uscì vincitore dai conflitti, giungendo a conquistare larghe fette di territori in Egitto, Siria, Giordania e Libano. Proprio tali esiti indussero le frange più estreme della popolazione arabo-palestinese, ad assurgere il ruolo dei paladini della causa contro “l’occupazione sionista” (che, come ripercorso, tale non si può definire…).
Si assistette quindi ad un proliferare della nascita di gruppi terroristici eterogenei, da quelli islamo-sunniti o islamo-sciiti, a quelli di stampo socialista-rivoluzionario o a quelle rappresentanze politiche di stampo meramente laico.
Tali entità iniziarono quindi una fase di preparazione militare accompagnata da un reclutamento tra gli strati più bassi delle masse arabe e a una nomina dei rispettivi leader guidata e finanziata da paesi quali l’Iran, la Libia, l’Egitto, l’Iraq. Obiettivo indistinto di tutte le formazioni divenne quello di spargere il terrore indiscriminato tra la popolazione ebraica ma, soprattutto, di colpire anche i Paesi dell’Occidente accusati di sostenere lo Stato ebraico e di ospitarne le varie diaspore.
Iniziò da allora un lungo periodo ove si assistette ad una campagna di attentati, dirottamenti, rapimenti ed omicidi messa in atto dai terroristi pseudo-palestinesi. Tali deliberate azioni culminarono, almeno mediaticamente, nel massacro degli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 da parte del gruppo “Settembre Nero”. Un’operazione organizzata a Roma, in pieno centro, da due alti esponenti di al-Fath, Muhammad Awda Dawud alias Abu Iyad, e di Settembre Nero, Salah Khalaf. A fronte di quanto accaduto l’allora premier di Israele, la compianta Golda Meir, e l’intero establishment del Paese intesero colpire gli autori e le menti dell’eccidio con un piano denominato “Ira di Dio”, che vide protagonista il servizio segreto “estero” israeliano, il Mossad, delegato a mettere in pratica l’eliminazione degli obiettivi designati.
L’operazione, seppur completata, non portò ad una pacificazione delle parti, ma portò il terrorismo palestinese ad una successiva frammentazione con la creazione di sottogruppi che operarono in piena autonomia compiendo ulteriori attentati in Europa e conducendo alcuni governi del Vecchio Continente a rivedere le loro politiche nei confronti di Israele e degli arabo-palestinesi.
L’Italia, il paese del “piede in due scarpe”
In Italia, paese succube del panarabismo, prese forma il cosiddetto “Lodo Moro”, successivamente concordato a Beirut tra rappresentanti del SISMI (ex servizio segreto per l’estero), il generale Vito Miceli ed il suo successore Ammiraglio Mario Casardi, il colonnello Stefano Giovannone e quelli della controparte, George Habbash, a capo del FPLP, Bassam Abu Sharif (portavoce del FPLP) consigliere speciale di Yassser Arafat e Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia del FPLP.
Tale accordo prevedeva una sostanziale neutralità del nostro sciagurato Paese e contemplava un beneplacito “laisser faire” a riguardo dei traffici di armi, uomini e materiali sul territorio italiano, in cambio dell’immunità da attacchi terroristici, con un particolare che all’epoca “sfuggì” a molti: dall’accordo erano esclusi gli obiettivi israeliani e la popolazione ebraica…
Il salvacondotto, indegnamente siglato, ebbe seguito nei decenni successivi pur nell’ambito di successive transizioni alla guida del Paese e, per quanto consta, arriverebbe ai giorni nostri.
In effetti l’Italia è tra i pochi paesi ad essere uscito incolume dagli attentati di stampo non solo filo-palestinesi, ma anche da quelli di Al Qaeda e del Daesh. Il dubbio sorge spontaneo…
Quello che è un dato di fatto non trascurabile, è l’essenza di una politica estera scandalosa e pavida, seppur nella considerazione che essa sia stata frutto di una volontà di preservare la Penisola da sanguinosi attacchi da parte delle frange estreme siano esse pseudo religiose o politiche.
Francesco Cossiga e le verità nascoste
Prova sostanziale è un’intervista, volutamente tacitata a livello mediatico, rilasciata dall’emerito Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al quotidiano israeliano Yedioth Aharonot il 3 ottobre 2008, nella quale vengono evidenziati gli estremi dell’“Accordo Moro”, così denominato dall’omonimo ex Presidente del Consiglio, che ne era il responsabile.
Cossiga confermò ciò che precedentemente era stato rivelato da uno dei firmatari del “Lodo”, Bassam Abu Sharif, dichiarando:“Ho sempre saputo – benché non sulla base di documenti o informazioni ufficiali, sempre tenuti celati nei miei confronti – dell’esistenza di un accordo sulla base della formula “tu non mi colpisci, io non ti colpisco” tra lo Stato italiano ed organizzazione come l’OLP ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”.
Ma c’è di più. Il defunto ex Presidente rivelò che “in cambio di una ‘mano libera’ in Italia i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici – fin tanto che tali target non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”.
Inoltre, ciò che ricollega ai giorni nostri, vi è l’ammissione dell’ex Presidente, seppur resa nel 2008 in base alla quale dichiarò: “Posso dire con certezza che anche oggi esiste una simile politica. L’Italia ha un accordo con Hezbollah per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmamento, purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”.
Inutilità o contiguità di UNIFIL nei confronti di Hezbollah?
Non sorprende, dunque, che il nostro Contingente schierato da decenni al confine libanese di fatto non costituisca o non abbia costituito un deterrente per il riarmo delle milizie sciite, con le opere di escavazione di tunnel sotterranei diretti in territorio israeliano, di stanziamento di rampe missilistiche, di libero transito di uomini e mezzi lungo il confine, salvo poi tentare di calmierare gli animi infiammati del Governo di Gerusalemme di fronte ad un tale stato di inadeguatezza per non dire tolleranza fuori luogo o complicità.
Ci si chiede cosa e dove guardino i militari “osservatori” preposti a tale ruolo. Dove siano e come si concretizzino i compiti di disarmo o di prevenzione di “riarmo” delle milizie terroristiche libanesi. A che scopo attuare una politica finalizzata all’addestramento delle truppe dell’esercito di Beirut quando è ben noto che Hezbollah, di fatto, costituisca uno “stato nel stato” e che i militari libanesi non siano ovviamente scevri da infiltrazioni o percorsi di radicalizzazione da parte dei terroristi sciiti.
A tal punto sarebbe bene attuare un percorso di ritiro unilaterale delle nostre forze poste “a guardia” dei confini, ragazzi addestrati, coraggiosi ed orgogliosi di indossare l’uniforme, ma intimamente repressi nell’agire.
Resta il fatto che il nostro Paese, seppur con i cambi ai vertici politici, rimanga a margine degli scenari internazionali e paradossalmente ridicolo nel suo operarsi nel finanziare organizzazioni pseudo-umanitarie quali l’UNRWA infiltrate, cosa oramai pubblica, da terroristi di varie estrazioni, da Hamas a Hezbollah, il tutto sotto la guida di un’organizzazione quale l’ONU, capeggiata da fiancheggiatori e sostenitori del terrorismo palestinese, fomentatori di odio nei confronti di Israele.
Un odio che da antisionista cela volutamente un antisemitismo dilagante che, in chiave prospettica, apre scenari drammatici per la stessa esistenza di Israele, rendendoci complici di una nuova fase odio razziale nei confronti di un Popolo che, nella sua storia, non ha mai caldeggiato furori bellici ma sempre puntualmente risposto a provocazioni di ogni tipo, in solitudine.