L’Occidente arranca, la Russia si sente forte. Ma entrambi sembrano aver dimenticato Pechino e…Zelensky.
Piani per il rientro dei depositi in USD all’estero, RUB digitale, utilizzo di criptovalute: la Banca Centrale russa adotta e pianifica strategie e piani per il dopoguerra in sintonia con la Duma di Stato che –ma la notizia diffusa il 20 aprile 2023 dal sito della Duma è passata inosservata anche in questo caso in Occidente– ha adottato in prima lettura un pacchetto di disegni di legge governativi volti a garantire uno sviluppo socio-economico sostenibile delle regioni DNR (Repubblica Popolare di Doneck), LNR (Repubblica Popolare di Lugansk), Zaporizhzhya e Kherson.
A tale proposito Maksim Topilin, deputato della Duma di Stato eletto nell’elenco federale dei candidati presentato dal partito politico panrusso “Russia Unita” nonché Presidente del Comitato di politica economica, ha sottolineato che i tre progetti di legge in esame prevedono misure speciali per sostenere l’economia e le industrie delle nuove regioni russe. Il progetto prevede la creazione di una zona economica franca nei territori delle regioni citate a condizioni favorevoli per gli investitori dal 1 gennaio 2024 al 31 dicembre 2050.
Come ha dichiarato Topilin, “si tratta principalmente della creazione di una zona economica libera (FEZ), uno strumento che abbiamo sperimentato in alcune entità costitutive della Federazione Russa, tra cui Crimea e Sebastopoli. Si tratta di misure di sostegno molto efficaci che contribuiranno ad attrarre attivamente gli investimenti” grazie ad un regime esattoriale speciale che sarà in vigore in tutti e quattro i nuovi soggetti fino alla fine del 2050. Le funzioni di preparazione di tutti i regolamenti necessari, dei requisiti per gli investitori e della gestione diretta saranno affidate al Fondo di Sviluppo Territoriale, ma già si sa che i residenti della FEZ saranno esenti dall’imposta sul reddito per gli investimenti e il reddito generato dai nuovi progetti.
L’imposta sui profitti, inoltre, sarà azzerata nella parte federale, mentre le entità costituenti avranno il diritto di ridurre la loro parte di imposta sui profitti: questo sempre stando a quanto dichiarato dal citato Maxim Topilin, che ha pure definito uno dei benefici più significativi i contributi assicurativi ai fondi non di bilancio visto che all’aliquota del 30% – l’aliquota standard – è previsto sia correlato un beneficio del 7,6%. Se confermata la misura si configurerebbe come un vantaggio molto significativo per gli investitori, probabilmente il beneficio più gradito, che oltretutto promette di garantire un afflusso consistente di capitali.
Per un grande investitore, l’importo minimo sarà di 30 mln di RUB, mentre per le piccole e medie imprese sarà di 3 mln di RUB.
Il Governo dovrebbe inoltre concerne sussidi ai progetti di investimento per attrarre prestiti bancari, anche se al momento il progetto di legge non specifica le loro dimensioni: un tema che dovrebbe essere discusso in un secondo momento.
Tutto viene declinato con un tono e tempi verbali che ostentano una sicurezza certamente giustificata dalle condizioni alquanto agitate del vasto oceano tempestoso nel quale pare arrancare ogni giorno di più l’intero Occidente, con in testa gli Stati Uniti seguiti a ruota dall’Unione Europea che in questi giorni paiono non poco scossi dalla presa di coscienza del FMI, che si è visto costretto a rivedere al rialzo le prospettive di crescita della Federazione Russa, nonché la procrastinazione degli effetti auspicati delle sanzioni a un non meglio definito… “entro il 2027”, che suona alquanto sinistro per quello che riguarda le aspettative di Nato, Stati Uniti ed UE per ciò che riguarda la durata del conflitto in atto.
Alla luce dei fatti, però, dopo gli Stati Uniti e la UE pare proprio che sia la Russia ad aver fatto –e a continuare a fare– i conti senza l’oste: si scrive ‘oste’, ma si legge Pechino in quanto a questo punto viene naturale domandarci quale ruolo la Duma di Stato abbia ritenuto dare per scontato che la Cina debba giocare in questa insidiosa partita, anche solo considerando che a tutto marzo 2023 Pechino ancora deteneva la posizione di primo partner commerciale e di potenziale investitore di elezione per l’Ucraina con, nel periodo gennaio-febbraio 2023, un commercio bilaterale combinato di 2,3 mld di USD, pari a poco più di un 1 mld di USD al mese (seguita dalla Polonia con 1,95 mld e ancora da Turchia e Romania): questo nonostante una flessione del 30% rispetto allo stesso periodo del 2022, stando al Servizio doganale statale ucraino3.
La Cina, la dimenticata Cina, è –e resta– un partner commerciale fondamentale per l’Ucraina, in quanto fornisce il 14,4% delle sue importazioni (principalmente macchinari, attrezzature e veicoli, combustibili e prodotti energetici e prodotti chimici), ed è la destinazione del 15,3% delle sue esportazioni ( consistenti di prodotti alimentari, metalli, prodotti metallici e alcuni macchinari, attrezzature e veicoli).
L’Ucraina, poi, come noto ha aderito alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese nel 2014 e nel 2018 è stato aperto a Kiev un centro per il commercio e gli investimenti BRI e le aziende cinesi hanno investito nei porti ucraini. In particolare COFCO, il gigante cinese statale dell’agroalimentare ha investito ben 50 mln di USD a Mariupol – ora città in prima linea nella provincia di Donetsk, assediata dai separatisti filorussi dal 2014 – per triplicare la sua capacità di trasbordo agricolo e le aziende cinesi sono state coinvolte anche in progetti di dragaggio dei porti ucraini di Yuzhny e Chernomorsk (rispettivamente a Nord e a Sud di Odessa).
Per somma va tenuto in debito conto che prima del conflitto le aziende cinesi hanno puntato anche sui settori energetici ucraini tanto delle rinnovabili (solare ed eolica) quanto del nucleare (Uranio), ambito quest’ultimo in cui Kiev, puntando all’autosufficienza, aveva contato sugli investimenti della China Development Bank visto che Pechino importa quasi tutto l’uranio che utilizza.
Si stima che l’Ucraina, nell’ambito dell’accordo intergovernativo del giugno 2021 per la promozione di una cooperazione congiunta finalizzata allo sviluppo infrastrutturale, abbia contratto un prestito con Pechino pari al 12% del deficit di bilancio: in totale ben 1 mld di USD per finanziare il potenziamento della rete stradale del Paese.
Alla luce di queste semplici considerazioni, appaiono quanto mai evidenti le ragioni dell’impegno cinese per il raggiungimento in tempi brevi di un accordo di pace stabile e duraturo contemplante –è facile prevederlo– un articolato e significativo contributo, promozionale di futuri sviluppi della politica commerciale di Pechino, sotto forma di prestiti la cui concessione a Kiev sarebbe subordinata all’esecuzione dei lavori necessari alla ripresa economica ed alla ricostruzione del Paese da parte di imprese cinesi: un’opzione questa di gran lunga più economica rispetto agli appaltatori dell’UE, in un contesto che palesemente vedrebbe messo in un angolo l’Occidente ed ampiamente ridimensionata una Russia che pare non aver capito in quale posizione si trovi rispetto alla Cina.
Per quello che riguarda l’Ucraina, allo stato attuale nella posizione di vero e proprio ago della bilancia, il carro più promettente cui agganciare le proprie sorti future non pare sia quello alquanto traballante guidato da Washington che prima o poi –più prima che poi– dovrà fare i conti con il proprio debito pubblico e la perdita da parte dello USD del proprio ruolo di moneta di elezione per le contrattazioni di fonti energetiche e commodities; e meno che mai quello della servile frammentata Unione Europea, bensì proprio quello cinese che può fornire il migliore supporto anche difensivo da Mosca, nonché il più stabile sostegno economico per l’importanza che l’Ucraina riveste nei piani geopolitici, affatto accantonati, di Pechino.