Ucraina: la falsa ombra di Sarajevo.
Un interessante articolo apparso su La Stampa il 20 giugno 2023 con il titolo “La Nato sta per varcare il Rubicone: polacchi pronti a combattere i russi”, che pare aver riscosso parecchia attenzione e visibilità, ci parla del pugnace spirito dei polacchi, della loro volontà di riscatto generati da tre secoli di contenziosi con la Russia: strana motivazione per un paese, la Polonia, che studi recenti dimostrano essere caratterizzato dal fatto che oggi il 63% della popolazione polacca non legge un libro da un anno intero. Nel 22% di tutte le famiglie non c’è un solo libro sullo scaffale, eppure sono tra i più decisi in Europa, forse proprio per questo, a difendere i “valori occidentali”. Viene spontaneo domandarsi dove li abbiano appresi: da qualche pubblicità progresso, forse?
La domanda non è provocatoria ma più che legittima, direi, e non credo lo si debba spiegare.
Studi condotti in ambito internazionale da strutture occidentali in epoca non sospetta – e pertanto non ascrivibili ad entità propagandistiche russe – ci descrivono una situazione a dir poco allucinante che merita una adeguata riflessione a partire dalla lettura di un interessante articolo intitolato “To Know and Face Functional Illiteracy” dal nome dell’omonimo progetto Erasmusplus 2019-1- IT02-KA204-062395 KAFFI – “To Know and Face Functional Illiteracy” di Jolanta Ernest ( formatrice aziendale, avvocato, docente universitaria, esperta di immagine, manager di lunga data che conduce trattative sociali, legali e commerciali, specialista in competenze soft come comunicazione, motivazione, assertività, efficienza, ma anche nel campo della psicologia delle relazioni di genere e dell’etichetta negli affari).
Il progetto ha visto come capofila la Brainery Academy, un’Associazione di promozione sociale che si occupa di educazione degli adulti, e la partnership costituita da 7 Paesi (Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Bulgaria, Polonia e Slovenia) in cui il problema dell’analfabetismo funzionale rappresenta un’emergenza sociale nel silenzio delle Istituzioni locali, che molto probabilmente se ne avvantaggiano politicamente non poco, come in Italia ben vediamo anche in questi giorni.
Ebbene, nell’articolo appena citato, testualmente leggiamo: “Un gruppo significativo di polacchi, compresi quelli che leggono, non capisce i messaggi che legge e non può utilizzarli in modo pratico. Inoltre, esiste un ampio gruppo di polacchi che non è in grado di esprimersi in forma scritta. In questo modo, il fenomeno dell’analfabetismo reale e funzionale può essere messo in relazione con il piano comune, che è la qualità del contatto con la scrittura, con una variazione scritta della lingua (alfabetizzazione). In questo caso, l’analfabetismo funzionale deve essere visto come una delle ragioni del fenomeno riconosciuto. L’analfabetismo funzionale è un termine che si riferisce alla capacità di utilizzare correttamente le informazioni e le conoscenze per analizzare, argomentare e comunicare efficacemente nei processi, di porre, risolvere e interpretare problemi in varie situazioni (Skwarek, 2015). L’analfabetismo di civiltà è l’incapacità di utilizzare i propri diritti, le informazioni, la tecnologia, i beni culturali e le soluzioni organizzative. Gli indicatori empirici sono di solito: comprensione di testi di utilità (ad esempio, istruzioni per l’uso, foglietti illustrativi, orari), comprensione di concetti di base, regolamenti e ordini, capacità di utilizzare le nuove tecnologie e i servizi informativi, ad esempio un programma di fatturazione delle tasse, il calcolo del tasso di interesse, ecc. Analfabetismo digitale – questo termine viene utilizzato per descrivere l’incapacità di utilizzare le opportunità offerte dalle tecnologie dell’informazione. Questo tipo di incapacità deve essere distinta dall’ analfabetismo informativo, ovvero la mancanza di competenze nell’utilizzo delle informazioni quando si considera un insieme di dati distaccati e non correlati come informazioni. La trasformazione dei dati in informazioni è invece un processo logico di gerarchizzazione e connessione”.
Ecco che, inquadrato il problema, alcuni dati tratti dal rapporto (Literacy in the Information …, 2000) acquistano una preoccupante significatività nel momento stesso in cui apprendiamo che “il 39,80% dei polacchi non comprende informazioni e concetti semplici, il 39,81% dei polacchi non è in grado di formulare messaggi brevi, il 93% dei polacchi non è in grado di utilizzare le nuove tecniche bancarie, il 95% dei polacchi ha difficoltà a usare il computer e a utilizzare Internet, il 68% dei polacchi non comprende gli ordini interni e le istruzioni ufficiali. Il Programma per la valutazione internazionale degli studenti (PISA), attuato dal 2000 dall’OCSE, riguarda le competenze di comprensione del testo, pensiero matematico e pensiero scientifico. Ed ancora dagli stessi studi apprendiamo che la Polonia è una scuola di incompetenza. In Polonia, il processo di caduta nell’analfabetismo funzionale inizia subito dopo il diploma di scuola primaria: il 20% dei diplomati della scuola elementare ha difficoltà a comprendere semplici letture. Il 75% degli intervistati dal CBOS ammette che l’istruzione dei bambini è una priorità per loro. In realtà, in Polonia non esiste una tradizione di educazione, soprattutto di auto-educazione. I polacchi non solo non assorbono le novità, ma non hanno nemmeno le competenze necessarie nella società industriale tradizionale. Secondo il rapporto dello IALS (International Adult Literacy Society – Literacy in the Information…, 2000), il 42% della società polacca è costituito da invalidi funzionali, persone che non solo hanno difficoltà a comprendere testi e informazioni di base, ma non sono nemmeno in grado di lavorare negli uffici e di godere dei pieni diritti civili”.
Personalmente ritengo che le pretese dei polacchi per quanto riguarda la posizione che la Nato dovrebbe assumere nei confronti del conflitto Ucraino, in nome della presunta difesa dei già citati e sempre più aleatori ‘valori occidentali’, ammesso e non concesso che l’analfabetismo funzionale rientri nel novero di detti valori, dovrebbero essere attentamente valutate alla luce delle tristi risultanze or ora esposte.
Interessante notare che, quanto a problematiche di analfabetismo funzionale, anche altri Paesi tra i più decisamente interventisti non vantano situazioni di gran lunga migliori di quelle polacche sulle quali Washington sembra speculare alla grande per propri interessi geostrategici, puntando sulla incapacità media di discernimento di queste popolazioni e sul supporto di Paesi che, come l’Italia, non presentano una migliore situazione al pari dei Britannici che solo per questo, merita ricordarlo, sono stati a suo tempo indotti dall’ex Premier Boris Johnson a votare a favore di una Brexit rivelatasi una follia perseguita dal Governo britannico a suon di vere e proprie grossolane fake news, come dallo stesso Boris Johnson ammesso a posteriori.
Detto, poi, per inciso: vista la memoria storica dei polacchi che farebbero risalire a tre secoli fa l’inizio dei contenziosi con i russi, ricordano i polacchi come e perché ebbero inizio questi contenziosi?
Forse ai polacchi queste cose interessano poco, ma viste tutte queste vaste memorie storiche, agli ucraini non farebbe male ricordare un paio di cosette, come ad esempio quelle riguardanti il decisamente scarso amore dei polacchi per loro.
Un buon punto di partenza per iniziare ad affrontare il tema –così, tanto per cercare di farci un’idea di questo ‘spassionato amore’ di Varsavia per la “terra dei cosacchi”– passa per la lettura di un libro di Gogol intitolato “Taras Bul’ba”. Ambientato all’incirca nell’Ucraina del XVII secolo, devastata dai tartari, governata dai polacchi e messa a ferro e fuoco dalle scorribande dei cosacchi, il racconto narra le imprese di uno dei condottieri di questi ultimi, Taras Bul’ba, che affiancato dai figli Andrej ed Ostap, assaltò la città di Dubno e di come Andrej, per amore di una donna polacca, tradì i suoi passando nelle schiere nemiche e per tale ragione venne ucciso dal padre a sangue freddo, con un colpo di fucile, nel mentre che Ostap, fatto prigioniero e portato a Varsavia, veniva torturato e giustiziato.
Nonostante il nuovo Etmano (leader) dei cosacchi avesse concluso un accordo di pace con i polacchi, Taras decise di penetrare per vendetta in Polonia seguito dai cosacchi a lui fedeli: dopo tutta una serie di scontri conclusisi sul campo a suo favore, fu alla fine fermato dal generale Potocki, alle porte di Cracovia, catturato, torturato e in seguito arso vivo dopo essere stato legato ad un albero.
Oggi, tre statue di bronzo, a Lviv, Kiev e Poltava, ricordano i leader (etmani) del popolo guerriero del basso Dnepr. E mentre gli europei hanno scordato cos’è la guerra, le guerre, invece, bisognerebbe tenerle a mente sempre, specie quelle cosacche visti i tempi, perché la storia ucraina è storia europea e come tale, oggi più che mai, ci riguarda da vicino se si vuole sostenere che l’invasione di Putin non è diversa da quelle tartare, lituane, turche, polacche e zariste che l’hanno preceduta. È lecito domandarci da dove sia scaturito tutto questo amore dei polacchi per gli ucraini, soprattutto perché per secoli i Cosacchi del Dnepr -che non facevano parte di alcuna comunità, né pagavano tributi essendo una fratellanza guerriera – guidati dai loro condottieri, gli etmani, furono il bastione degli zar, con cui condividevano la fede ortodossa, respingendo verso sud gli infedeli Tartari e turchi e verso ovest gli odiati cattolici polacchi.
Detto per inciso, il personaggio storico cui Gogol si ispirò per il suo Taras Bul’ba fu quel Bohdan Khmelnytsky cui venne dedicata la statua equestre bronzea che ancora campeggia nella piazza più moscovita di Kiev, in memoria dello storico patto del 1654 con cui si sottomise allo zar in cambio dell’aiuto nella rivolta contro i polacchi che segnò l’ingresso del Paese nell’orbita russa e la definitiva messa alla porta della Polonia.
Fu solo nella seconda metà del XVIII secolo che, allorché Mosca cominciò a temere i reggimenti indisciplinati e il sentimento di ribellione che li animava, la Russia si mosse contro di loro nel 1764 per volontà di Caterina II che fece radere al suolo la Sic – l’accampamento oltre le cataratte del Dnepr, dove i cosacchi zaporoztsy si allenavano al combattimento allevando cavalli, cacciando orsi e facendo baldoria – e cancellare l’Etmanato dalla carta geografica, senza per questo intaccare il mito dei cosacchi e delle loro guerre alla frontiera europea (Ucraina vuol dire “terra di confine”): un’epopea che ancora oggi rivive non solo nel folklore ma si rinnova attraverso nuovi epigoni.
Segnatamente, parrebbe proprio questo l’evento da cui prese le mosse l’odio antirusso che trovò forma e sostanza a partire dall’estate del 1942: è noto infatti che allorché i tedeschi raggiunsero l’Ucraina meridionale, la Crimea e le regioni caucasiche, i Cosacchi presero a collaborare con i nazisti insorgendo contro i commissari politici sovietici e facilitando la conquista dei territori da parte dei tedeschi.
Fu così che a Novocherkassk, la capitale cosacca sul Don, Sergei Pavlov, l’atamano locale, invitò tutti i Cosacchi a prendere le armi per combattere al fianco dei tedeschi contro l’Armata Rossa cosicché, dal giugno 1942, agli alti comandi tedeschi iniziarono a giungere insistenti richieste per ottenere l’autorizzazione a formare la forza cosacca volontaria che nel luglio del 1942, a Berlino, per opera del generale Piotr Krasnoff ( quello stesso Krasnoff che aveva già collaborato con i tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale, procurando armi per i cosacchi controrivoluzionari), prese ad assumere forma e sostanza con la costituzione del primo nucleo di un’organizzazione cosacca anti- comunista (Hauptverwaltung der Kosakenheere, Berlin).
Dopo la disfatta di Stalingrado, le formazioni volontarie cosacche si ritirarono verso ovest insieme alle forze tedesche e durante questo esodo si crearono diversi stanziamenti civili dei cosacchi, in Polonia e pure in Bielorussia, dove nei campi di raccolta di Novogrudki e Baranovichi, vennero create altre unità cosacche, subordinate all’amministrazione principale degli eserciti cosacchi presieduta di Krasnoff ed alimentate per la gran parte da volontari provenienti dai campi di prigionia tedeschi organizzati in 11 reggimenti cosacchi, ciascuno forte di 1.200 uomini: di questi il 1° Reggimento, agli ordini del colonello Lobisewitsch, venne denominato “1° Reggimento Don Generale Krasnoff”.
Questi reggimenti andarono poi a formare un’intera Armata cosacca che al comando del colonnello Serghei Vasilevic Pavlov (capo di Stato maggiore venne designato il colonnello cosacco Timofey Ivanovic Domanov), sotto la spinta delle armate russe, venne trasferita nell’Italia nord-orientale dove, tra il luglio e l’agosto 1944, circa 20.000 cosacchi del Don, del Terek, del Kuban e della Siberia, provenienti dalla Polonia, con al seguito le famiglie, migliaia di cavalli e carri, giunsero nella Carnia in Friuli: la terra loro promessa dai tedeschi quale nuova patria (denominata Kosakenland in Nord Italien).
Arresisi agli inglesi vennero da questi, in base agli accordi di Yalta, consegnati ai russi insieme con gli altri cosacchi di von Pannwitz.
Molti Cosacchi preferirono suicidarsi collettivamente con le famiglie nelle acque della Drava piuttosto che cadere nelle mani dei russi, che più che comprensibilmente impiccarono e fucilarono gran parte dei generali e degli ufficiali procedendo al trasferimento degli altri nei campi di concentramento sovietici della Siberia.
Ora chi sono i nuovi Cosacchi dopo 70 anni?
La domanda è più che legittima soprattutto perché la cosa pare più che altro il frutto di una macchinazione politica di matrice Occidentale: un po’ quello che accadde in Kosovo dove i nazionalisti dell’UÇK furono sostenuti, armati e sponsorizzati dalla CIA, e prima ancora dai servizi segreti tedeschi, per interessi che nulla avevano a che fare con i bisogni delle comunità ivi dimoranti, bensì per il perseguimento dei più sporchi interessi che come tali abbisognavano di creare il casus belli stimolando le violenze per potersi presentare come pacificatori e insediarsi in loco.
Un copione vecchio che, a quanto pare, anche in Ucraina è stato fruttuosamente utilizzato al punto di dare dignità e visibilità politica alla destra fanatica e neo-nazista locale: nel 2010 Andriy Biletskyj –ex leader del gruppo neonazista ucraino Patrioti d’Ucraina, nonché fondatore nel 2014 del movimento Azov– ha significativamente dichiarato che un giorno sarebbe toccato all’Ucraina “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro gli untermenschen (subumani) capeggiati dai semiti”.
Viene da domandarci se siano questi i ‘valori occidentali’ di cui tanto straparla il Presidente Biden e a cui si riferiscono i lacchè europei.
Comunque sia, il tentativo di Biletskyj di fondare un partito politico (Corpo nazionale) si è rivelato un fallimento e alle ultime elezioni, nel 2019, il blocco unito dei partiti di estrema destra non riuscì nemmeno a superare la soglia di sbarramento (piuttosto bassa) per entrare in Parlamento: semplicemente gli elettori ucraini rifiutarono l’ideologia di estrema destra dicendo no al più becero nazionalismo cui la guerra ha conferito visibilità e persino valori di patriottismo.
Se Putin ha giocato sporco, non migliore gioco hanno giocato gli americani stimolando il peggio del peggio per giungere ad una guerra che gli ucraini non potranno mai vincere, nonostante le smargiassate di un Biden che pare alquanto confuso se un giorno invia Blinken a Pechino ed il giorno dopo insulta Xi Jinping: qualcosa che dovrebbe farci riflettere sul profondo disagio psicologico e mentale di coloro che la narrativa ufficiale ci presenta come la leadership della Casa Bianca e della Nato, come pure sulla scarsa capacità di giudizio di chi nelle cancellerie europee gli dà credibilità e continua ad allinearsi sulle sue fallimentari posizioni.