Tra le mille incognite secolari che hanno accompagnato la sua lunga storia, il 2017 sarà un anno assolutamente cruciale per il futuro politico della Turchia. Sarà solo in questi mesi che le cancellerie europee e gli osservatori internazionali comprenderanno in quale lido approderanno i sogni di gloria di Recep Tayyp Erdogan. La lunga e impressionante scia di attentati che hanno contraddistinto il 2016 – golpe o presunto tale escluso – consegnano alla cronaca più di 400 morti e innumerevoli feriti tra Istanbul e Ankara, in un quadro politico ricco di tensioni, scontri e incertezza. Ma quale scadenze attendono la Turchia?
La scorsa settimana il primo ministro turco Binali Yıldırım ha annunciato che la tanto combattuta riforma costituzionale che concede al Presidente di nominare direttamente i ministri, sciogliere l’organo legislativo, dichiarare lo stato d’assedio e governare per decreto, sarà sottoposta a referendum confermativo nel prossimo aprile. Se dovesse passare questa svolta, attesa da Erdogan da diversi anni, l’unica fetta di “potere” ancora in capo al parlamento sarà a quel punto sotto il controllo dell’ex sindaco di Istanbul che ben potrà, a quel punto, ritagliarsi finalmente quel ruolo di “sultano 2.0” tanto ambito quanto inseguito in più di 14 anni di potere incontrastato.
Nulla, nemmeno tra i più ottimisti, fa presagire che tale svolta costituzionale possa essere bocciata dall’elettorato, impaurito dalla lunga lista di morti, per niente convinto dell’esistenza di un reale alternativa ad Erdogan e, soprattutto, ben conscio della deriva autoritaria del governo di Ankara. Mai come in questi ultimi 12 mesi la progredita e tollerante Turchia che ricordavamo è apparsa agli occhi degli osservatori internazionali come un paese del tutto diverso, del tutto cambiato, quasi dimentico della lunga tradizione laica e democratica degli ultimi decenni. Il potere dei militari, fin dai tempi di Ataturk difensori della laicità della nazione, è di fatto stato neutralizzato con una serie di arresti selvaggi e processi sommari giustificati con l’emergenza in atto. Debole è anche l’opposizione kemalista rappresentata dal CHP, intimidita dallo strapotere della maggioranza dell’AKP. Il tutto senza contare la fiacca e isolata resistenza delle forze di estrazione curda dell’HDP, di fatto silenziate dopo le accuse di connivenza con i golpisti del luglio scorso e in seguito a un discreto successo, ritenuto pericoloso da Ankara, dopo le elezioni-stallo del giugno 2015.
Di certo c’è solo che tale svolta autoritaria decisa da Erdogan, e dal partito islamista che controlla, consegnerà una Turchia molto più forte nel panorama mediorentale, nonostante gli insuccessi della guerra, ormai personale, al suo vicino più prossimo, il presidente siriano Bashar al-Assad. L’asse personale che il rais di Ankara è riuscito a recuperare e a rafforzare con la Russia di Vladimir Putin ha già fatto della Turchia l’unica nazione legata mani e piedi all’espansionismo russo all’interno della Nato. Questo doppio ruolo turco di secondo membro per numero di militari nell’alleanza atlantica, ma allo stesso tempo primo alleato di Mosca, fa della Turchia un ibrido particolare, una incognita all’interno dello schieramento anti-Isis. Difficilmente sotto il potere di Erdogan la Turchia potrà nuovamente contare su alleati di peso nel dialogo costante ma sempre più flebile con l’Unione Europea. Di fatto, la Turchia che da circa un secolo, sotto l’influenza kemalista, aveva deciso di guardare ad ovest piuttosto che ad est, ha deciso di cambiare rotta e il prevedibile consenso che il popolo turco certificherà ad aprile con la riforma costituzionale sancirà il definitivo allontanamento da Bruxelles e dalle sue istituzioni.
Un’Unione Europea, quindi, sempre più accerchiata, sempre più isolata e respinta dai suoi antichi alleati, eredi dei due più grandi imperi mondiali della storia europea recente. Per capire tutto questo basta guardare la cartina geografica: Regno Unito e Turchia rappresentano i più grandi e popolosi paesi ai confini dell’Unione ed entrambi stanno attuando una politica di allontanamento progressivo sia dalla comunità intergovernativa e, cosa ancor più sorprendente, dal mercato europeo. Un fallimento, questo, su cui le istituzioni di Bruxelles dovrebbero cominciare, una volta per tutte, a fare i conti e che impedisce qualsiasi progetto di rilancio dei rapporti a breve e medio termine. La Turchia, per secoli, ha rappresentato sì una Europa diversa, ma sempre di Europa si trattava e la miopia costante di Bruxelles, incapace di prevedere una adeguata partnership quantomeno mercantile che potesse dare seguito ai progressi turchi ne ha, di contro, accelerato il distacco. Ed è proprio questo il più rilevante interrogativo dell’anno che investe Bruxelles e Ankara: continuare a solcare la distanza o tentare un improbabile riavvicinamento?