Nella Tunisia dei gelsomini, un Paese tradizionalmente laico, si affacciano nubi minacciose. Il presidente del Consiglio della Shura del partito islamista Ennahda, Abdelkarim Harouni, ha comunicato formalmente la decisione di candidare il leader del movimento, una diretta emanazione della Fratellanza musulmana, Rashed el Ghannouchi, alla presidenza del consiglio del Paese nordafricano.
L’iniziativa non desta particolare stupore se si considera il successo elettorale, inferiore comunque alle aspettative, della formazione Ennahda alle scorse consultazioni elettorali. Il responso delle urne ha premiato il movimento islamista con 52 seggi sui 217 disponibili al Parlamento di Tunisi, incoronandolo come primo partito ora alla ricerca di una maggioranza ben definita che ridisegni il governo del Paese.
Ennahda pare godere dell’appoggio incondizionato anche del neo presidente, Kaïs Saïed che, in segno di continuità con le linee dettate dai Paesi arabi a maggioranza islamista, ha sottolineato il carattere anti-sionista del suo mandato e dei dettami guida del partito islamista di El Ghannouchi.
El Ghannouchi, il leader multiforme
Dopo un ventennio trascorso in esilio nel Regno Unito, Rashed el Ghannouchi rientrò in Tunisia il 30 gennaio 2011, all’indomani della “rivoluzione dei gelsomini, in un Paese fortemente destabilizzato dalle proteste cui fece seguito l’immancabile crisi economica. Al suo arrivo all’aeroporto di Tunisi, Ghannouchi venne accolto trionfalmente da migliaia di sostenitori deliranti. Questa popolarità provocò un’ondata di panico negli ambienti politici fortemente legati al sentimento di laicità dello Stato indotto dal “Padre della Patria”, il defunto e storico presidente Habib Bourghiba, assolutamente contrari ad ogni svolta teologica. Il 78enne Ghannouchi, sostenitore di una re-islamizzazione in senso radicale della Ummah, la comunità islamica mondiale, è da sempre considerato una longa manus in nord Africa dei Fratelli Musulmani egiziani, formazione fondamentalista con emanazioni radicali e jihadiste. Dopo un percorso di studi teologici seguiti in Egitto, Francia e Siria, el Ghannouchi rientrò in Tunisia dove, alla fine degli anni ’70, fondò il partito del Movimento della Tendenza islamica. Sotto la presidenza di Bourghiba venne arrestato e condannato a morte con l’accusa di aver sostenuto una rivoluzione islamista nel Paese.
Ma il colpo di stato “indolore” di Zeyn el Abidine bel Alì del 1987, indotto dalle gravi condizioni di salute di Bourghiba, salvò el Ghannouchi dall’esecuzione. Tornato in libertà, riprese l’attività politica rinominando il partito Mti in Ennahda (rinascita) ed ottenendo parziali successi alle consultazioni elettorali della fine degli anni ’80. El Abidine ben Alì, successore di Bourghiba alla presidenza del Paese, non ci mise molto a comprendere come il legame di Ennahda alla Fratellanza musulmana, e il suo appoggio all’ascesa dei movimenti jihadisti, dall’Afghanistan all’Algeria, avrebbe condotto El Ghannouchi a prese di posizione caratterizzate dall’influenza dell’islamismo dilagante.
Nel 1991, El Abidine pose quindi fuori legge il partito Ennahda di El Ghannouchi che si trovò costretto a cercare rifugio oltre Manica. Le nuove prese di posizione di Ennahda, dopo il rientro in Tunisia del leader in esilio, spaziano da un’apertura verso i tradizionali partner commerciali occidentali, Italia e Francia in primis, a caute proposte di riforma dello Stato, tese comunque a rassicurare gli ambienti laici del Paese e la classe media da ogni specifico riferimento all’applicazione della Sha’aria.
Le parziali aperture in senso modernista proposte da Ennahda, sono considerate delle vere e proprie operazioni dissimulatorie conformate ai canoni della Taqyyia, allo scopo di occultare agli occhi dell’Occidente le reali intenzioni del movimento islamista, proteso alla conquista del potere e all’applicazione radicale della Legge islamica.
Il sostegno “imposto” del presidente Kaïs Saïed
Kaïs Saïed, il 61enne professore di diritto già consulente presso la Lega araba e l’istituto per i diritti umani, è stato designato come sesto presidente della repubblica Tunisina dopo le elezioni del settembre scorso, ottenendo la vittoria a fronte di un’aspra contesa con il candidato rivale, il tycoon Nabil Karoui, proprietario del più popolare canale televisivo generalista tunisino, accusato di evasione fiscale e riciclaggio. Saïed, assertore del rifiuto a ogni compromesso con il tradizionale sistema politico e della lotta alla corruzione, in nome di una rigidità morale che gli ha permesso di guadagnare la fiducia degli elettori pur in assenza di sponsor politici o finanziatori, sostiene un programma conservatore sulle questioni sociali, per il quale ha già ricevuto accuse di aderenze al salafismo. Le dichiarazioni del neo presidente dal sostegno alla pena capitale, al rifiuto della depenalizzazione sul reato di omosessualità, o le discordanze sul progetto di legge relativo alle pari opportunità di genere in campo ereditario, sono state valutate come un doveroso riconoscimento al partito Ennahda, principale sostenitore durante la campagna elettorale per le presidenziali.
E’ certo che il sostegno di Ennahda sia stato alla base delle ripetute e scottanti dichiarazioni anti-israeliane che Kaïs Saïed ha pronunciato durante la campagna elettorale. Pur sottolineando che la comunità ebraica tunisina è “parte di noi”, il Presidente Saïed ha ribadito che, in ogni caso, ogni tentativo di normalizzazione dei rapporti con Israele sarebbe considerato come una forma di “alto tradimento” e che la sua linea nel campo dei rapporti tra i due Stati, proseguirà sui binari di quella tracciata dai precedenti esecutivi. Appena ovvio l’entusiasmo manifestato dai sostenitori “islamisti” a fronte delle dichiarazioni di Saïed, che ha tenuto a ribadire che “siamo in guerra con il sionismo e le relazioni con gli israeliani non devono essere sostenute e ai titolari di passaporto israeliano sarà vietato l’ingresso in Tunisia”.
Una delusione per chi sperava in un cambio di direzione da parte del neo eletto nel campo della politica internazionale che, alla prova dei fatti, si sta rivelando come un Raiss subornato dai suoi stessi sostenitori e non certo una guida carismatica che porti il Paese a una chiara modernizzazione politica e a una reale svolta verso l’Islam moderato.