Le celebrazioni del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, hanno evidenziato, prima del forte simbolismo, la stanchezza e la ripetitività di certi riti comunitari, frutto di una lunga tradizione protocollare. Questa Europa malconcia, sempre meno resistente ai feroci attacchi da parte dei neo-nazionalismi imperanti, incensa se stessa, ricordando i tempi di una alleanza di ferro, a sei nazioni, che sì, allora, sembrò (e fu) preponderante, innovativa, lungimirante. Oggi di quella Europa intima e giovane, aperta, veloce non rimane nulla. Non è un caso, forse, che qualche giorno fa le agenzie di stampa a Bruxelles abbiano fatto trapelare la notizia della prossima “abolizione” della tradizionale foto di gruppo al termine dei summit. A parte la difficoltà oggettiva e lo scarso interesse nel ritrarre una platea di soggetti, sconosciuta alla maggioranza, e sempre più lunga, basta un semplice giochino di editing, ormai in voga sul web, per accostare quanto e chi immortalato in questi giorni con i vecchi leader del passato: Hollande al posto di Mitterrand, Merkel al posto di Kohl, Gentiloni al posto di Craxi e la May al posto della signora Thatcher rappresentano, plasticamente, l’involuzione politica e di peso specifico che la nuova Europa ha vissuto a scapito del suo, anche recente, passato.
La crisi del sistema partito classico
La crisi del sistema partito classico, di cui l’Italia è stata ed è tuttora protagonista, ha determinato, anche agli occhi dei meno acuti osservatori, un sostanziale abbassamento della qualità dei profili delle personalità che oggi sono chiamati nelle istituzioni parlamentari e governativi.
Ma allo stesso poco attento osservatore non sarà sfuggito, come, alla fine, neanche l’Europa se la passi meglio. L’involuzione, quasi paradossalmente contraria ai principi darwiniani, colpisce effettivamente tutto il vecchio continente. Ed ecco come alcuni motivi della crisi possano essere facilmente spiegati. Non possiamo nasconderci come molti dei fallimenti delle politiche comunitarie, anche a livello monetario, possano essere ascrivibili alla scarsa capacità dei leaders di turno. Brexit – solo per prendere come esempio una delle ultime catastrofi – è stata frutto di una scelta politica precisa, poco ponderata, di David Cameron che, alla fine, per ottenere sempre più agevolazioni dalla matrigna Bruxelles, ha ottenuto il nulla. Caduto nella stessa trappola che aveva architettato, per ricevere un nuovo, forte mandato dagli elettori britannici, Cameron non ha che decretato un pericoloso salto nel buio di una superpotenza mondiale oltre che, la sua, personale, rovinosa caduta. Da Tsipras a Podemos, da Grillo a Salvini, passando per Orban, la premier polacca Beata Szydło e i populisti alla Le Pen, Farage, Wilders: sono tutti frutto di una Europa che sotto i leader degli anni ’80, ad esempio, mai avrebbe potuto concedere tanto ascolto ai populismi e ai nazionalismi di ritorno. Sarà stata, forse, la necessaria burocratizzazione seguita ad un auspicabile, sì, ma forse troppo repentino, allargamento ad est o forse, un ampliamento dell’area del mercato monetario comune, utile a determinati soggetti ma dannoso ad altri, specialmente per gli ultimi, ma l’Unione Europea mai era parsa così irrilevante e marginale nel processo decisionale mondiale. E la poca capacità di leadership non può che incidere su questo stallo. In questa situazione non può che gioire, amaramente, tutta quella platea di – stavolta attenti – osservatori i quali non potranno non constatare come, in effetti, in buone mani non siano solo gli italiani ma un pò tutti. Mal comune, mezzo gaudio?