La battaglia di Badr, combattuta e vinta dal profeta Mohammad contro le preponderanti forze degli arabi pagani della Mecca, nel marzo 626, il mese del Ramadan sacro per i musulmani, rappresenta per i radicali islamici una pietra miliare del loro credo spinto all’esasperazione.
Proprio la ricorrenza del mese di digiuno e riflessione, che quest’anno si inaugurerà il 16 maggio, assume un’importanza fondamentale nella spinta fornita dai sostenitori della jihad agli adepti sparsi nel pianeta che, nell’imminenza del Ramadan, ricordano le parole del defunto Taha Subhi Falaha, meglio noto come Muhammad al Adnani che, rivolgendosi ai seguaci del Califfato sui social network, nel 2016 ebbe occasione di affermare: “Preparatevi, bisogna essere pronti a scatenare un mese di calamità in tutto il mondo per i non credenti … questo avviso è rivolto soprattutto ai combattenti e sostenitori del califfato in Europa e in America”.
Il messaggio venne subito recepito dai jihadisti che, nel solo corso di quell’anno colpirono ripetutamente, da Orlando a Baghdad, da Daqqa a Istanbul, per citare solo le azioni più sanguinose rivendicate dal Daesh in quel periodo.
L’azione portata a termine nella serata di ieri a Parigi dal 21enne ceceno Khamzat Azimov, seguita a breve distanza dalle stragi nelle tre chiese di Jakarta, in Indonesia, paiono ricalcare il copione descritto, seppur in anticipo con i tempi di inizio del Ramadan che, quest’anno si preannuncia particolarmente infuocato per motivazioni che vanno dalla volontà di riscossa e di ribalta mediatica da parte dell’Isis, alla prossima inaugurazione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme, per finire con il protrarsi delle manifestazioni degli arabo-palestinesi nei pressi dei confini con Israele in occasione della “Marcia del ritorno” che si protraggono ormai da più di un mese.
Il quadro non si presenta roseo dal punto di vista della sicurezza e gli attentati di ieri e oggi. Seppur condotti con modalità diverse tra loro, debbono far riflettere sulla capacità catalizzatrice insita nei messaggi che il Daesh diffonde da anni sui maggiori social network, sull’incapacità di fornire una reale ed efficace risposta da parte delle intelligence e, soprattutto, sull’inadeguatezza del “sistema sicurezza” a livello globale.
L’attentatore di Parigi, sebbene nato in Cecenia, era giunto in Francia come richiedente asilo e, successivamente agli accertamenti esperiti dalle autorità transalpine, era riuscito ad ottenere la cittadinanza francese nel 2010. Ma alcune ombre hanno cominciato a gravare sul giovane già dal 2015, tanto che venne segnalato all’intelligence francese poichè legato a coetanei in procinto di unirsi agli jihadisti del Daesh in Siria e, in ragione di questi contatti, interrogato dalle autorità e segnalato con l’ormai nota “fiche S”.
Nonostante questo, il 21 enne, aveva probabilmente raggiunto un livello elevato di radicalizzazione, tale da portarlo alla funesta azione di ieri, compiuta con modalità e mezzi che l’hanno resa “non preventivabile”. In un filmato diffuso oggi dall’agenzia Amaq, inoltre, è emerso il giuramento al Daesh, la bay’aat del giovane ceceno, pronunciato in largo anticipo rispetto all’entrata in azione.
Proprio questo tipo di “iter operativo” è quello prediletto negli ultimi mesi dai seguaci del Daesh, che pongono in essere le loro azioni in nome di una sorta di jihad “low cost” con ampi benefici operativi e grande risalto mediatico. Il massimo risultato con il minimo sforzo, quindi, una jihad economica che si beneficia, necessariamente, di un alto numero di candidati al martirio, ovvero la carne da cannone del Califfato. I vertici dell’organizzazione provvedono al loro “innesco” successivamente ad un periodo di “maturazione” dei soggetti all’interno dell’apparato della jihad o, come più probabile, giovandosi del semplice spontaneismo. Una disastrosa politica del terrore che, per la legge dei grandi numeri, potrebbe proseguire per decenni.