Guerre, attacchi terroristici, attentati, morti, stragi e sparatorie: un bombardamento mediatico quotidiano per i minori, sempre più vittime del linguaggio della violenza. Una sovraesposizione senza filtri e senza tutela, amplificata dai social network e da internet, che attrae i più giovani alla ricerca di informazioni e notizie per le quali, specie in tenera età, non si è ancora pronti ad apprendere, con il risultato che per molti l’impatto emotivo e psicologico può essere traumatico. Per Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, “bisogna sempre dire la verità ai bambini, usando le parole giuste in base all’età”.
In un manuale d’istruzioni pubblicato sul sito dell’Osservatorio la dottoressa Manca spiega come fare a comunicare ai più piccoli ciò che accade, contenendo le loro reazioni emotive e creando una rete di supporto e di sostegno intorno per evitare che i messaggi vengano filtrati in maniera sbagliata e possano condizionare emozioni e comportamenti. Per prima cosa, si legge nel manuale d’istruzioni, “è importante raccontare la verità, il genitore vorrebbe sempre proteggere e nascondere certe atrocità ai figli. Mentire o tentare di nascondere i fatti è un comportamento scorretto nei loro confronti, perché in un modo o in un altro si accorgono di quello che accade, percepiscono che c’è tensione e non comprendere cosa stia succedendo li disorienta”. Fingere che non sia successo nulla è sbagliato anche perché un figlio parlerà sicuramente con gli amici, apprenderà le notizie dalla tv o sullo smartphone, sentirà parlare le persone in strada. Per questo il ruolo della famiglia è fondamentale e deve necessariamente precedere ciò che invece è compito della scuola.
Cosa dire ai bambini sotto i 5 anni
I bambini più piccoli, spiega la Manca, “non essendo in grado di valutare adeguatamente il grado di rischio di un eventuale coinvolgimento personale, non hanno la concezione dello spazio-tempo come quella dell’adulto e possono pensare che fatti accaduti in posti lontani li riguardino da vicino e nell’immediato e che possa coinvolgere direttamente anche la loro famiglia”. Per questo quando sono molto piccoli bisogna assolutamente evitare l’accesso diretto alle immagini di attentati che non sono in grado di filtrare. Ci sono studi scientifici che dimostrano come i bambini esposti maggiormente a questo tipo di immagini manifestano livelli di stress psico-fisico più elevati rispetto agli altri bambini. Per questo hanno bisogno di maggior contenimento, fisico e non solo emotivo, perché percepiscono la tensione e la preoccupazione dei genitori e hanno bisogno di essere immediatamente rassicurati. In ogni caso, suggerisce la psicoterapeuta, “lasciategli tanto spazio per esprimere quello che hanno dentro, che facciano tante domande, che disegnino, che lo esprimano attraverso i giochi. Hanno bisogno di tirar fuori quello che hanno dentro attraverso tutti i canali comunicativi, soprattutto quelli non verbali”.
Dai 6 agli 11 anni
In questa fascia d’età il bisogno di conoscere e apprendere deve sempre prevalere, purché ciò avvenga sempre alla presenza di un genitore. Bisogna fare molta attenzione perché questi minori sono già in possesso di strumenti che li possono mettere in contatto con determinate immagini per cui gli adulti non gli devono far vedere e sentire questo tipo di notizie da soli, perché non sono in grado di filtrare quello che realmente accade.
“I ragazzi di quest’età già sanno cosa sia la cattiveria, la guerra, il far male per cui sono in grado di comprendere ciò che gli viene spiegato, altrimenti si rischia che possano prendere iniziative personali, che vadano a cercare le notizie da soli o che colmino con la loro fantasia e le loro paure”. Bisogna mantenere il più possibile la routine quotidiana perché li rassicura, evitare reazioni allarmistiche e conflittuali della famiglia che potrebbero sortire effetti opposti. Al massimo possono vedere un telegiornale con il genitore che gli spiegherà cosa sta succedendo, evitando una iper-esposizione.
Occorre trasmettere loro il messaggio che la violenza “non è una questione generale che riguarda tutti gli uomini di un determinato paese, ma una cosa legata ai pochi che provano odio e che in maniera sbagliata lo riversano sulle altre persone”. Già a questa età è possibile introdurre il concetto di terrorismo piuttosto che di guerra ad opera di pochi, spiega il presidente dell’Osservatorio, “perché per loro è più chiaro il concetto che è più facile fermarli”. Non va alimentato l’odio razziale perché potrebbero avere come compagni di scuola ragazzi di religione islamica e, in ogni caso, vanno evitate forme di generalizzazioni che portano all’odio verso gli altri. Questi minori “hanno bisogno anche di sperare e di credere ancora nell’amicizia e nel prossimo, per questo quando si spiegano questi attentati vanno circoscritti a singoli episodi e soprattutto vanno tranquillizzati quando chiedono se in qualche modo possa capitare anche a loro. Bisogna specificare che in Italia ci sono tanti bravi poliziotti e carabinieri che lavorano ogni giorno per impedire che questo accada, che ci proteggono e fanno in modo di tenerci al sicuro”.
Dai 12 anni in su
A loro va detta la verità direttamente dai genitori, spiegandogli in modo rassicurante cosa sta succedendo. Questa fascia d’età è molto sensibile, poiché dai dodici anni in su la curiosità aumenta e spesso sono attratti quasi dal macabro e da determinate situazioni estreme. Si è in piena adolescenza e questo coincide con il momento della vita in cui si comincia a mettere in discussione le regole e il genitore, da cui si pretende sempre la verità per non sentirsi traditi. “Bisogna monitorare anche le loro attività online, spiegandogli di evitare di andare a ricercare determinate immagini e in caso di vederle con il genitore. Loro sono sottoposti ad un vero e proprio bombardamento social e mediatico e rischiano che quel tipo di immagini possano entrargli dentro”, avverte Manca. Anche in questo caso bisogna in ogni modo evitare di alimentare rabbia e odio razziale. Nei più grandi non sono da sottovalutare anche le reazioni inverse, ossia il non voler vedere o negare quello che è accaduto, “una sorta di allontanamento dalla coscienza”. Il genitore deve parlare lo stesso anche se i figli sostengono che non gliene importi niente e spiegargli cosa è successo perché tanto, anche se non sembra, ascoltano sempre.
@PiccininDaniele