Dagli attentati di Parigi in poi assistiamo in Europa ad una nuova fase dell’allerta terrorismo. Una fase che vede l’Europa quale incubatrice e sorgente autonoma dei soggetti potenzialmente pericolosi e nello stesso tempo bersaglio delle azioni terroristiche.
Il 14 luglio, a Nizza, in occasione della festa nazionale, un tunisino di 31 anni residente in Francia ha prima sparato sulla folla per poi scagliarsi con un grosso camion contro i passanti: 84 morti e oltre cento i feriti. Il 18 luglio seguente, in Germania, un 17enne afghano ha aggredito, armato di ascia e coltelli, i passeggeri a bordo di un treno: quattro i feriti, di questi uno in pericolo di vita. L’atto è stato rivendicato, anche in questo caso, dallo Stato Islamico. Il 19 luglio, nelle Hautes-Alpes francesi, un marocchino di 37 anni di religione musulmana, ha accoltellato una donna e le sue tre figlie. Le ragioni sarebbero riconducibili all’abbigliamento della donna e delle sue figlie, non gradito all’aggressore. Il 22 luglio (un caso a parte): a Monaco di Baviera, un ragazzo diciottenne, musulmano sciita di origini iraniane, ha sparato all’interno di un centro commerciale provocando la morte di 9 persone e il ferimento di 16. Il 24 luglio Mohammed Daleel, un rifugiato siriano di 27 anni che aveva giurato fedeltà all’Isis, fa esplodere un ordigno artigianale fuori dall’ingresso di un festival musicale ad Ansbach, in Baviera. L’attacco ferisce 15 persone e causa la morte dell’attentatore. La mattina del 26 luglio il terrore jihadista ha fatto il suo ingresso per la prima volta in una chiesa europea dove due estremisti di nazionalità francese, immigrati di seconda generazione, hanno preso cinque persone in ostaggio nella chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, uccidendo l’anziano sacerdote, padre Jacques, e ferendo altre due persone.
A differenza degli attacchi di Parigi e Bruxelles non siamo di fronte ad operazioni coordinate e simultanee ma ad atti di violenza che attraverso la semplificazione dello strumento offensivo hanno consentito di portare a compimento con successo missioni stragiste decise altrove. Ciò che emerge è l’evoluzione del fenomeno, la frequenza degli attacchi e la tipologia dei soggetti coinvolti. I tratti caratterizzanti che emergono ci indicano la giovane età degli attentatori, la cittadinanza europea, una forma di disadattamento sia esso personale o di tipo sociale e ovviamente la fede musulmana con la disponibilità al martirio ed al sacrificio della propria vita.
La vicinanza temporale degli eventi lascerebbe pensare ad un vero e proprio “contagio imitativo”, una specie di meccanismo di emulazione che se non affrontato adeguatamente potrebbe portare alla continuazione degli attacchi.
Il risultato dell’amplificazione mediatica degli eventi, e soprattutto dei successi conseguiti in termini di vite umane, rischia di innescare un circolo vizioso, pericoloso, ma nello stesso tempo vantaggioso per l’opera di marketing dell’Isis. Il vantaggio è indiscusso, basta notare l’immediatezza con cui l’Isis rivendica le azioni portate a termine. Molto si è parlato sul possibile collegamento tra gli eventi singoli, così come molto si è detto sulle tesi legate esclusivamente alle psico-patologie di cui sarebbero stati affetti i soggetti autori degli attentati. Queste tesi sono del tutto fuorvianti. Al contrario gli eventi sono senz’altro riconducibili all’Isis. I riscontri informativi ci dicono che tutti i soggetti hanno agito in nome dello Stato Islamico.
Dopo Parigi e Bruxelles la reazione istintiva è stata quella del blocco delle frontiere e del ripristino dei controlli alle frontiere interne nell’ottica di neutralizzare la mobilità dei foreign fighters evitando il trasferimento di expertise terroristiche dal Medio oriente e dall’Africa in Europa. Forse ci siamo concentrati troppo sulla dimensione esterna del problema e sugli effetti che quest’ultima potesse avere sulla sicurezza interna in Europa perdendo di vista il fatto che nei quartieri europei di molte capitali si è già creato e sviluppato il substrato ideale affinché il terrorismo possa attecchire.
Ha senso parlare di chiusura delle frontiere nell’epoca del “reclutamento 3.0”? Le analisi condotte negli ultimi mesi dimostrano un’evoluzione significativa e importante del fenomeno, relativamente alla tipologia ed al processo di radicalizzazione. Un processo di radicalizzazione che segue oggi percorsi diversi da quelli tradizionalmente conosciuti. Siamo di fronte a fenomeni di auto-radicalizzazione individuale, ossia di unità islamizzate, talvolta in tempi molto rapidi, attraverso pratiche confessionali più informali, che passano per il web e che sono meno inserite nei canali più ortodossi e convenzionali.
Alla luce dei recenti eventi possiamo individuare due diversi profili di individui. I foreign fighters di rientro dai territori di guerra che trasferiscono le tattiche di combattimento convenzionale e di guerriglia acquisite sul campo e sono pronti a compiere azioni strutturate seguendo un percorso emotivo specifico. Gli attentatori delle ultime settimane, i cosiddetti lupi solitari, spesso erroneamente assimilati ai foreign fighters, profondi conoscitori del territorio, delle abitudini e della cultura delle città cui appartengono, pronti a portare violenza secondo una pianificazione stragista, costituiscono micro nuclei pericolosi e di difficile individuazione.
La combinazione funzionale delle due figure costituisce la base della nuova allerta terrorismo e della trasformazione della minaccia. Il ritorno non monitorato di foreign fighters puo’ contribuire ad alimentare la creazione di lupi solitari ed alla loro attivazione. Deve essere aggiunto che proprio in questi giorni il direttore dell’Fbi ha lanciato un allarme sull’evoluzione del rischio legato ai foreign fighters. James Comey ha indicato quelle che potrebbero essere le conseguenze di una sconfitta sul terreno da parte dell’Isis evidenziando che si potrebbe innescare un meccanismo di fuga da parte dei combattenti stranieri sopravvissuti alla battaglia sul campo. La relativa facilità negli spostamenti nonchè la vicinanza tra il teatro operativo e l’Europa esporrebbe quest’ultima ad un flusso mai visto prima di rientri di foreign fighters una sorta di diaspora di terroristi.
In questa delicata fase diventa essenziale individuare una strategia complessiva di intervento che si sviluppi in maniera orizzontale. Interrompere il flusso di foreign fighters colpendo reclutamento e viaggi attraverso la criminalizzazione del fenomeno rafforzando gli strumenti giuridici ed operativi come già fatto dall’Italia. Promuovere la conoscenza e la condivisione delle informazioni tra servizi di intelligence e forze di polizia. Comprendere le disfunzioni sociali e culturali che agevolano il fenomeno e progettare strategie di prevenzione efficaci.
L’agenda europea sulla sicurezza ha fornito un quadro chiaro per una migliore collaborazione in materia di sicurezza in seno all’Ue. Quanto descritto in precedenza evidenzia la necessità di una politica di sicurezza dell’Ue che sia ambiziosa e nello stesso tempo commisurata all’entità delle minacce. La concezione e l’attuazione di misure per contrastare la radicalizzazione avviene per lo più sul terreno, a livello locale ma anche regionale o nazionale, e rientra precipuamente nelle competenze degli Stati membri.
Il Centro di eccellenza della Radicalization Awareness Network (Ran) istituito nel 2015 è il punto nodale europeo e la piattaforma per scambiare esperienze, mettere in comune le conoscenze, identificare le migliori pratiche e sviluppare nuove iniziative per affrontare la radicalizzazione. Ad esso partecipano diversi attori (tra cui psicologi, educatori, operatori sociali, capi delle comunità e ong assieme a rappresentanti della polizia, del personale carcerario e di quello addetto alla sorveglianza delle persone in libertà provvisoria nonché rappresentanti di diversi ministeri e amministrazioni) in tutti gli ambiti pertinenti che vanno dallo scambio di esempi di resilienza contro la propaganda estremistica su internet alla radicalizzazione nelle carceri nonché al contesto educativo con un’attenzione particolare per i giovani.
Il centro d’eccellenza della Ran contribuisce a far convergere le esperienze e le iniziative pertinenti creando sinergie in diversi ambiti politici. In pratica, il Ran fornisce sostegno agli Stati membri nella concezione e attuazione di attività di prevenzione efficaci fornendo orientamenti e manuali per la costituzione di strutture multiagenzia, la creazione di una piattaforma di scambio di esperienze e pratiche e procedendo ad un’ulteriore mappatura della ricerca sulla radicalizzazione.
Quali sono le prime indicazioni fornite dal Ran e quali pratiche sono state individuate per affrontare in modo efficace la radicalizzazione? Investire nella prevenzione, eliminando alla base quel terreno fertile per la radicalizzazione. Coinvolgere e formare esperti di prima linea, in quanto saranno questi il primo punto di contatto professionale con gli individui a rischio. Sviluppare un approccio multiagenzia e multidisciplinare. Nel mese di novembre è prevista una conferenza europea organizzata dal Radicalization Awareness Network (Ran) il cui scopo è quello di riunire praticanti e policy makers per fare il punto di situazione, condividere esperienze ed individuare ulteriori misure attuative di contrasto alla radicalizzazione in Europa.
Sotto il profilo operativo il centro europeo antiterrorismo (Ectc) istituito a Gennaio 2016 presso l’Europol, seppur con qualche difficoltà, ha tentato di rinforzare la capacità antiterrorismo di Europol, offrendo agli stati membri una piattaforma per potenziare il coordinamento operativo, in particolare nella lotta contro i foreign fighters, il traffico di armi da fuoco illegali e il finanziamento del terrorismo. La necessità di migliorare lo scambio di informazioni tra le autorità di contrasto degli stati membri e le agenzie dell’Ue e l’interoperabilità delle banche dati e dei sistemi di informazione rimane ancora non sufficientemente attuata. Sono stati fatti passi in avanti in tal senso, tuttavia occorre ancora superare, urgentemente, le residue carenze, frammentazioni e limitazioni operative per lo scambio di informazioni.
Il miglioramento del Sistema d’informazione Schengen (Sis), l’elaborazione di una prima serie di indicatori comuni di rischio, in materia di foreign fighters, per poter rilevare gli spostamenti dei terroristi ed il rafforzamento dei controlli sistematici alle frontiere esterne rappresentano un importante infrastruttura comune nell’ottica del contrasto alla minaccia terroristica. Tutto questo richiede una efficace e continua partecipazione degli Stati membri nel popolare le banche dati esistenti affinché le informazioni utili siano inserite e condivise sistematicamente con il centro europeo antiterrorismo di Europol.
La Commissione presenterà iniziative mirate alla costituzione di un Fusion Information Center presso il Centro europeo antiterrorismo di Europol allo scopo migliorare interoperabilità ed integrazione attraverso la creazione di un hub dati europeo che consenta la condivisione delle informazioni a supporto delle attività operative per il conseguimento di una reale ed efficace “Unione della Sicurezza”.