Nulla viene lasciato al caso. I piani per le azioni terroristiche, soprattutto quelle perpetrate o da attuare in Occidente, vengono studiate a tavolino dagli specialisti dei maggiori gruppi islamisti, Isis compreso. Ogni elemento viene esaminato dagli strateghi del terrore coadiuvati da un insieme di tecnici che vanno dagli artificieri, agli informatici, agli armieri.
Il primo punto da affrontare è la motivazione dell’azione, cioè se essa sia una reazione ad una provocazione esterna da parte di un determinato Paese, o se faccia parte di una più ampia strategia di espansione. In ciò, il ruolo principale è ricoperto dagli imam, quasi sempre autoproclamati o eletti dai seguaci del gruppo, che dalla loro personale interpretazione del Corano, traggono spunti per giustificare le azioni che l’organizzazione si è prefissata e darne quindi legittimità religiosa.
Individuato il territorio dove agire, i tecnici provvedono a stilare una lista di target che potrebbero soddisfare le aspettative dei vertici jihadisti. Tali obiettivi rispondono alle esigenze del simbolismo (monumenti, musei, chiese, sedi di governi) o del pragmatismo (omicidi, stragi, attentati ad aeroporti, stazioni, porti). Nel primo caso l’intento è quello di instillare la consapevolezza negli avversari di poterli colpire ovunque e di poterlo fare nel cuore del loro Paese in ogni momento; nel secondo caso, invece, si segue quella che si può definire la strategia del terrore indiscriminato, finalizzata a creare panico, insicurezza e sfiducia negli organi delegati alla protezione dei cittadini. Ruolo non secondario è rivestito anche dalla scelta di una data particolare (festività natalizie, pasqua, sabato ebraico) che possa mostrare la superiorità dell’Islam rispetto alle altre religioni ed alle loro ricorrenze.
Il passo successivo è la vera pianificazione dell’attacco. Comprende la scelta sull’utilizzo dei cosiddetti martiri, consapevoli di andare incontro a morte certa in nome dell’Islam, o di mujaheddin addestrati anche all’esfiltrazione, ovvero, alla fuga degli operativi successiva all’azione.
La pianificazione degli attentati è, ovviamente, successiva all’individuazione dell’obiettivo o degli obiettivi da colpire solitamente in simultanea. Nei piani dei terroristi convergono più voci: dal posizionamento di ordigni, all’utilizzo di veicoli-bomba, alla sparatoria, al dirottamento di aerei o navi, il tutto congegnato in modo da arrecare al nemico il maggior danno con il minimo sforzo. Per un tipico attentato, i grandi gruppi jihadisti, hanno preso spunto da Al Qaeda.
Questa organizzazione è solita usare quattro gruppi di uomini. Una squadra di operativi viene incaricata per i sopralluoghi e l’identificazione del potenziale bersaglio. Quindi redige un rapporto che viene analizzato dai responsabili dai vertici dell’organizzazione o dai capi cellula selezionati i quali costituiscono il secondo gruppo. Quando viene dato il via libera all’attacco, i capi cellula attivano un terzo nucleo che fornisce il materiale per attaccare il bersaglio. Gli specialisti provvedono alla logistica, intesa come la dotazione di armamenti specifici o di congegni esplosivi manuali o a tempo, a seconda dell’occorrenza, nonché al trasporto dei miliziani presso i luoghi prescelti ed alla fornitura di documenti.
A sferrare l’attacco vero e proprio viene inviato il quarto gruppo, l’unico a partecipare direttamente all’azione. Sull’argomento si è espresso più volte negli ultimi anni Ayman Al-Zawahiri, attuale capo di Al Qaeda, esortando i network jihadisti ad utilizzare sempre più gli Shahid (martiri) poiché ritenuti congegnali per ogni tipo di attacco, garantendo, altresì, la sicurezza dell’esito delle azioni.
In numerosi casi si è riscontrata la presenza di un quinto gruppo, detto di osservatori, incaricato di azionare manualmente i giubbetti esplosivi nei casi di esitazione da parte degli operativi e di informare i capi cellula sugli esiti dell’attacco.
Nell’imminenza delle azioni i prescelti effettuano i rituali previsti, patrimonio dei miliziani del Califfato prima di ogni battaglia. Dapprima il martire compila il testamento che, successivamente andrà ai parenti più prossimi o, secondo le volontà del mujahed, all’organizzazione madre; segue il pagamento di eventuali debiti contratti, in questo sostenuto dal capo cellula che provvede ad eventuali integrazioni di denaro; successivamente compie le abluzioni, indossa indumenti puliti (che solitamente comprendono almeno un capo di biancheria o un sudario in cotone egiziano), effettua una completa rasatura del corpo (i peli sono segno di impurità al cospetto di Dio), compie, insieme agli altri componenti del gruppo una preghiera comune ed infine pone il Corano nella tasca sinistra dell’abito o giacca indossati.
Sempre più spesso è stato riscontrato l’utilizzo di anfetamine tipo”captagon” da parte dei prescelti ideologicamente più deboli, soprattutto quelli di giovane età, che potrebbero palesare esitazioni proprio nell’imminenza delle operazioni.
L’azione viene compiuta e portata a termine nella consapevolezza di essere nel diritto/dovere di eseguirla, ricoprendo un ruolo quasi da giustiziere, ed è effettuata da individui infarciti di odio e disprezzo verso le vite umane che stanno per spezzare. In questo, il ruolo svolto nell’indottrinamento dei votati al martirio da parte dei già citati imam, ricopre una parte fondamentale per la riuscita degli attacchi. Il mujahed agisce in uno stato di trance, sicuro di potersi avvicinare a Dio e di godere di benefici incommensurabili. Alla sua famiglia provvederà l’organizzazione di cui fa parte che nulla farà mancare ai figli, alle vedove o ai genitori del martire.
Ad azione conclusa la cellula provvederà ad informare i vertici dell’organizzazione in modo da poter procedere alla rivendicazione dell’attacco attraverso complicate filiere che forniranno le ragioni dell’azione, i dettagli, i riferimenti coranici e la consueta promessa della continuazione della Jihad. Social network, canali web ed anche semplici DVD, costituiscono i canali privilegiati per il riversamento dei messaggi di rivendicazione dell’organizzazione che, subito ripresi dai grandi network di comunicazione di massa, attraverso testimonianze dirette, foto, videoriprese, daranno vita a quel risalto massmediatico tanto anelato dal gruppo terroristico che vedrà così accrescere la propria notorietà ottenendo nuovi adepti, volontari entrati nell’ottica del mero emulazionismo soprattutto tra i giovani e, non escluso appoggi politici ed economici da parte di nazioni contigue al fenomeno dell’espansionismo islamico.
Da non sottovalutare la capacità delle organizzazioni terroriste impegnate nella jihad di giovarsi di particolari strategie tendenti a sorprendere il “nemico”. Tra queste l’imprevedibilità delle azioni unita alla molteplicità degli obiettivi, la disinformazione e i diversivi, l’organizzazione militare e l’utilizzo di armi simboliche quali il Kalashnikov AK 47.
Tutto ciò è teso al raggiungimento del reale obiettivo: instillare nell’Occidente miscredente un sentimento di insicurezza generalizzato che i jihadisti intendono sfruttare per la prosecuzione della loro marcia verso l’obiettivo prefissato, l’espansione dell’Islam radicale.