“Senza l’aiuto del regno saudita, Al Qaeda non avrebbe avuto la capacità di programmare, pianificare ed eseguire gli attacchi dell’11 settembre”. Non ammette incertezze storiche il testo dell’azione legale presentata dagli avvocati di Stephanie Ross De Simone, la prima cittadina americana che ha deciso di sfidare in tribunale l’Arabia Saudita, sugli attentati del 2001. La donna è la vedova del comandante della Marina Patrick Dunn e si avvarrà della legge recentemente approvata dal Congresso americano che permette di portare in tribunale uno Stato straniero per gli attentati avvenuti all’interno dei confini statunitensi.
Nonostante l’opposizione del Presidente Barack Obama, la legge era stata approvata dalla Camera appena il 29 settembre. Obama si era sempre detto preoccupato per le possibili conseguenze di una tale decisione, considerato il fatto che non esiste nessuna prova ufficiale che colleghi l’Arabia Saudita agli attacchi collegati alle Twin Towers e al Pentagono. Quindici dei 19 attentatori erano di origine saudita ma, come spiegato in un report degli attacchi risalente al 2004, anche se “alcuni di loro hanno ricevuto supporto e assistenza da individui che potrebbero essere collegati al governo saudita”, sarà quasi impossibile dimostrarlo. Senza considerare il fatto che, complottismi esclusi, ancora molti aspetti di quegli attentati rimangono avvolti nel mistero. La decisione del Congresso inasprisce ulteriormente le relazioni con uno Stato amico in una zona ancora molto calda per il governo americano. Oltre al rischio politico, esiste anche un pericolo economico: i sauditi hanno fin da subito minacciato di ritirare in massa ingenti investimenti bancari dagli Stati Uniti (quantificabili in 700 miliardi di dollari l’anno).
Di fatto però, l’azione legale intrapresa dalla De Simone, segna un precedente che potrebbe aprire ad una lunga catena di richieste di risarcimenti. Le vittime di quegli attentati furono 3000, quasi interamente presenti all’interno delle due Torri. Patrick Dunn si trovava invece al Pentagono, dove persero la vita 125 persone, oltre alle 54 presenti sul volo American 77. All’epoca, la moglie era in attesa del loro primo figlio. Ora la donna chiede un risarcimento per “morte ingiusta e imposizione intenzionale di stress emotivo” (nella giustizia italiana si parlerebbe di morte violenta del coniuge e danni morali).
Un caso che resterà storico, ma che si appresta ad essere seguito da numerosi altri. James Kreindler, avvocato newyorchese, rappresenta centinaia di famiglie delle vittime e lotta da oltre un decennio per ottenere un risarcimento da Ryhad. Già dal 2009,infatti, il Jasta (Justice against sponsors of terrorism act) aveva avanzato la richiesta di permettere ai cittadini americani di fare causa non solo agli Stati sponsor del terrorismo (Sudan, Siria, Iran), ma a qualsiasi governo ritenuto responsabile di aver supportato l’organizzazione di un attacco. Anche se in caso di Stati alleati politici o economici.
Su questo punto in particolare si fondava il veto di Obama. Sfidare la sovranità di alcuni Paesi amici, secondo il Presidente potrebbe portare conseguenze disastrose per gli Stati Uniti, e mettere a repentaglio il loro stesso potere. Washington rischia di essere ricoperta di cause di ritorsione per le sue azioni in tutto il mondo. La strada scelta dal Congresso, però, è solcata da un moto popolare e impulsivo che ricorda chiaramente l’inizio della guerra in Afghanistan, subito successiva agli attacchi dell’11 settembre. Una decisione presa sulla scia del consenso popolare e della sete di vendetta che i cittadini americani ancora pagano sulla loro pelle. E allora perché riproporre una decisione così compatta da ribaltare la posizione governativa? Secondo Obama il motivo è solo uno: le imminenti elezioni.