I due giganti non hanno trovato l’accordo. Ancora in stallo le trattative tra Stati Uniti e Russia per la tregua di 48 ore in Siria. Non sono bastati i colloqui tra le parti in causa durante il G20 svoltosi nei giorni scorsi in Cina. L’ultimo faccia a faccia a Hangzhou tra il segretario di Stato Usa, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si è concluso con un nulla di fatto. Il Dipartimento di Stato americano ha reso noto che tra i due contendenti “rimangono ancora divergenze” per un accordo che possa garantire aiuti umanitari alla popolazione di Aleppo. Secondo quanto ribadito da fonti governative Usa, la Russia avrebbe violato le condizioni già pattuite negli scorsi negoziati per via del nuovo e massiccio intervento militare di Damasco dello scorso fine settimana, appoggiato da Mosca.
Le forze governative siriane stanno infatti avanzando nel Nord del paese con il sostegno dell’aviazione russa. Aleppo rimane l’obiettivo. Le truppe di Assad sembra che abbiano preso sotto il loro controllo l’Accademia militare: struttura a sud della città, strategica per il possesso di armi e munizioni. Una mossa che va letta nel tentativo di accerchiare sempre di più le aree controllate dai ribelli. Infatti la città è divisa in due dalla metà del 2012: le zone occidentali sono in mano alle forze del Regime e quelle orientali rappresentano la roccaforte degli insorti, che nelle ultime settimane sono riusciti a prendere il controllo di diversi siti militari, sempre nella parte sud di Aleppo.
Uno scenario di guerra ancora aperto mentre Stati Uniti e Russia – unici attori in campo capaci di scrivere la parola tregua nel conflitto siriano – continuano le loro trattative in quella che sembra essere diventata una nuova guerra fredda al tempo della cyber security. Il riferimento è alle presunte ingerenze nella campagna elettorale americana da parte del Cremlino. Il “deficit di fiducia”, parole di Obama, alimentato dai reciproci sospetti sull’interferenza nella rispettiva opinione pubblica nazionale, non ha prodotto fino ad ora grandi risultati: dalla Siria sino all’Ucraina e l’annosa questione delle sanzioni. Questo G20 sarà ricordato anche per l’aggettivo usato dal presidente Barack Obama per definire i rapporti con il suo omologo Putin: blunt, ossia smussato, brusco, per non dire gelido.
Intanto sul fronte siriano non cessano neanche gli attentati. Quattro autobombe sono esplose lunedì scorso in diverse regioni del Paese. Una sfilza di attacchi che ha provocato almeno 50 morti nelle zone sotto il controllo delle forze governative. Due ordigni sono esplosi nei pressi di Tartus (località dove ha sede una base navale russa), un altro a Homs durante un attacco suicida, e l’ultimo ad al Sabburra, frazione della provincia di Hama, tra Damasco e il confine con il Libano.
Nel frattempo continua la campagna turca “Scudo dell’Eufrate”, iniziata il 24 agosto per liberare la città di Jarabulus dall’occupazione del Daesh e contrastare la presenza delle milizie curde dell’Ypg lungo i suoi confini. “È responsabilità dell’esercito turco mantenere la sicurezza dei civili nella regione”, ha detto il presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha ribadito come non sarà mai accettata la presenza curda nel nord della Siria, definibile in tal senso come “un corridoio del terrore”. Dopo due anni di conflitto – fanno sapere dallo Stato maggiore di Ankara – l’esercito libero siriano (Fsa), che gode del suo sostegno, è riuscito a prendere il controllo di tutta l’area al confine con la Turchia: da Azaza a Jarabulus.
Dal canto loro gli uomini dell’Ypg, braccio armato del partito dell’Unione democratica curda, hanno denunciato a Kobane nei giorni scorsi, tramite il loro account Twitter, il lancio di gas lacrimogeni da parte dei militari turchi che avrebbero anche aperto il fuoco contro gli abitanti della città: 40 i civili feriti negli scontri avvenuti durante una manifestazione contro la costruzione turca di un muro di cemento armato, attorno alla città simbolo della liberazione del Daesh. Quest’opera, secondo quanto riportato da un’agenzia curda, potrebbe sconfinare per 20 metri in territorio siriano precisamente nel Rojava, l’autoproclamata federazione curda della Siria del Nord.