Gli Usa mettono nuovi scarponi in campo per la battaglia finale di Raqqa. Un battaglione di 400 marines è arrivato nei giorni scorsi nel nord della Siria, rinforzando le fila americane presenti sul fronte mediorientale. La decisione presa dal Pentagono – seppur temporanea – di portare a quasi 1.000 le unità sul terreno siriano, rientra nel piano di escalation militare della nuova amministrazione Trump, che punta a ridare centralità alla posizione Usa dopo la politica meno interventista e più conservativa di Obama in Siria. Un provvedimento, inoltre, che va di pari passo con la corsa al riarmo, annunciata dal presidente degli Stati Uniti, che porterà a un aumento storico del 10% degli investimenti sulle spese militari, pari a 54 miliardi di dollari.
I marines, secondo quanto è emerso da fonti militari, agiranno da avamposto da cui far partire gli attacchi dell’artiglieria contro le prime linee difensive dell’Isis a circa dieci chilometri a nord di Raqqa. Un modo per spianare la strada ai combattenti delle Forze democratiche della Siria (Fds), composte per la maggior parte dai guerriglieri curdi dell’Ypg, nell’assalto alle prime fortificazioni nell’area intorno alla città.
Gli islamisti rimasti a Raqqa vengono stimati tra i 4 e gli 8mila, compresi i combattenti ceceni e dell’Asia centrale, arrivati per dar man forte alla resistenza jihadista. I numeri, quindi, sarebbero a favore del fronte avversario che vede tra le sue fila oltre all’appoggio dei circa 1000 tra marines e rangers, anche gli oltre 30.000 combattenti curdo-siriani. Ma le incognite restano sempre i possibili attacchi kamikaze e i numerosi tunnel scavati dagli jihadisti che non permettono facili letture nello stabilire una netta strategia militare del nemico sul campo.
La più folta presenza americana in Siria si spiega anche alla luce del summit di Antalya (Turchia), dove si sono riuniti i capi di Stato maggiore dei tre principali attori internazionali, impegnati nella risoluzione politica della crisi siriana. I rappresentanti militari di Stati Uniti e Turchia e Russia avrebbero parlato proprio dell’operazione americana in Siria, lasciando intendere una strategia comune e condivisa nel tentativo di lanciare l’attacco finale alla roccaforte dell’Isis. Una novità che potrebbe aprire nuovi scenari ma su cui sarà da chiarare la posizione di Ankara, che non è mai stata disposta a lasciare troppo campo alle forze curde dell’Ypg, considerate terroriste, e di cui teme l’espansione territoriale attorno ai suoi confini. Mentre da est si vanno avvicinando anche le forze governative siriane, sostenute dai russi, che di recente hanno ripreso il controllo sulla centrale dell’acqua che rifornisce Aleppo, avanzando nella zona di Manbij. A Damasco, nelle scorse ore, una doppia esplosione ha provocato una nuova scia di sangue nella città vecchia. Il bilancio, secondo quanto riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, parla di 44 morti e oltre 100 feriti in due attentati diversi. Nel primo una bomba è stata fatta esplodere al passaggio di un bus mentre nell’altro un uomo si sarebbe fatto saltare in aria.
Intanto sull’altro grande fronte aperto nella guerra all’Isis, quello iracheno, il cerchio sembra che stia per chiudersi attorno alla città di Mosul. I miliziani sono stati infatti intrappolati dalle truppe irachene, che sono riuscite nelle ultime ore a prendere il controllo dell’ultima via di fuga dalla roccaforte jihadista. Le unità speciali dell’esercito stanno cingendo d’assedio gli uomini del Califfato da nord-ovest, spingendoli sempre più verso l’interno. A confermarlo fonti governative di Baghdad ma anche le parole dell’inviato Usa della coalizione internazionale, Brett McGurk, che ha spiegato come la nona divisione corazzata dell’esercito iracheno abbia tagliato fuori le vie di fuga nei pressi della località di Badush. “Lo Stato islamico è intrappolato – ha detto McGurk- e nessuno dei combattenti rimasti a Mosul può andarsene. Sono destinati a morire lì, perché sono intrappolati. Pertanto noi ora non solo siamo intenzionati a sconfiggerli, ma faremo in modo che nessuno di loro possa fuggire”.
Con quest’ultima mossa le truppe di Baghdad tengono sotto il loro controllo un terzo della parte occidentale della città, prima in mano ai miliziani dell’Isis. Quest’ultimi si ritrovano sempre più schiacciati e costretti, in caso di fuga, a farlo in piccoli gruppi per non finire sotto il fuoco nemico. Le operazioni militari erano iniziate lo scorso ottobre, ma solo da febbraio è partita l’offensiva per liberare la parte occidentale della città – il cuore delle attività dei terroristi – grazie al supporto dei raid aerei della coalizione internazionale guidata dagli Usa.
Mentre proseguono i rastrellamenti, casa per casa, da parte delle forze di polizia irachena alla ricerca di jihadisti, migliaia di civili continuano la loro fuga dalla guerra. Sono 12mila le persone fuggite dai quartieri nord di Mosul nelle ultime 24 ore per cercare un riparo nei campi a sud di Mosul, a nord di Tikrit, a Kirkuk e nel Kurdistan iracheno. Solo a febbraio le Nazioni Unite avevano parlato di un rischio sfollamento per oltre 400.000 persone, mentre adesso le autorità irachene chiedono ai cittadini di non lasciare le proprie abitazioni e di non cedere alle pressioni degli uomini in nero.