La scia di sangue in Siria non si ferma. I combattimenti a nord di Aleppo sono ripresi con intensità, nonostante la tregua di 72 ore annunciata dal governo siriano e in vigore dalle 13 del 6 luglio in tutto il Paese per le festività della fine del Ramadan. L’esercito e le milizie alleate continuano ad avanzare, appoggiati da bombardamenti aerei. Le forze di Damasco stanno tentando di riprendere il controllo della direttrice di rifornimento dei ribelli nella seconda città della Siria. Le truppe di Assad hanno quasi completamente circondato le zone ribelli all’interno del centro storico di Aleppo. Anche nella zona intorno a Damasco l’esercito siriano continua la sua avanzata. Negli ultimi due mesi le forze lealiste hanno conquistato più di 15 villaggi nella zona di Ghouta, strappandoli al controllo di gruppi estremisti come Jaysh al Islam, Faylaq al Sham e Jabhat al Nusra. Nel frattempo la diplomazia internazionale continua a interrogarsi sul futuro della Siria e del suo presidente, Bashar al Assad.
“Il primo obiettivo è quello di consolidare la cessazione delle ostilità che è stata decisa ormai da oltre due mesi”, ha detto il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, aggiungendo che nel futuro della Siria “non potrà esserci” Bashar al-Assad. “Non c’è vittoria militare possibile sul terreno – ha concluso – L’unica strada è quella del negoziato”. Parole condivise anche da Staffan de Mistura. L’inviato speciale dell’Onu per la Siria, in una conferenza stampa alla Farnesina, ha commentato: “Non possiamo commettere gli stessi errori fatti in Iraq e Libia. Abbiamo una finestra ancora aperta per trovare una formula che unisca la lotta al terrorismo e la transizione politica. Dobbiamo combinare questi due elementi”.
“La chiave – ha spiegato – è la possibile intesa tra Russia e Stati Uniti. Sono in grado si accordarsi e se lo faranno, gli altri si adegueranno”. Il futuro della Siria e del suo presidente dipenderà, quindi, da quello che decideranno le grandi potenze. Fonti vicine al Cremlino affermano che la Russia è pronta a favorire un cambio a Damasco a patto che questo non modifichi la relazione speciale tra i due paesi. L’intervento russo dello scorso settembre ha ribaltato la situazione favorendo le truppe governative ormai, di fatto, unico argine al dilagare di Daesh. Un regime change senza troppi stravolgimenti potrebbe ricevere il via libera del Cremlino, a patto che non vengano favoriti gruppi legati all’Islam politico e che le basi militari russe in territorio siriano non vengano smantellate. Mosca più volte ha dichiarato che il suo appoggio a Damasco ha dei limiti e, come ripetono alcuni diplomatici russi, il sostegno è allo Stato siriano e non personalmente ad Assad.
La posizione della Russia sulla Siria è la stessa dall’inizio del conflitto anche se negli ultimi mesi c’è stata una convergenza significativa con l’agenda degli Stati Uniti. Entrambi i paesi vogliono dei colloqui di pace. Washington e i paesi occidentali spingono per l’immediata estromissione di Bashar al Assad, mentre Mosca non ha fretta. Per prima cosa bisogna sconfiggere l’estremismo. Vladimir Putin con l’intervento militare di settembre 2015, ha costretto i principali sponsor dei gruppi ribelli, come la Turchia, a fare un passo indietro, diventando l’unica potenza straniera con un peso reale nel teatro di guerra siriano.
Dalla sua il presidente siriano prova a rafforzare la propria posizione, apparendo in numerose interviste televisive e anche su quotidiani e periodici stranieri. Assad prova a convincere l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori che l’unico argine al terrorismo è il suo governo. Per ora la situazione rimane immobile in attesa di nuovi colloqui di pace che, questa volta, dovranno coinvolgere tutte le forze in campo, comprese le milizie curde, attori importanti del conflitto, ma tenute fuori dagli incontri di Ginevra.