La proposta russa agli Stati Uniti di coordinare in maniera congiunta gli attacchi aerei contro i gruppi che violano la tregua in Siria è stata rispedita al mittente. “Noi non collaboriamo né coordiniamo le nostre operazione con i russi”, ha ribadito il segretario alla difesa Ash Carter. Statunitensi e russi sono ancora lontani e le divergenze sul futuro della Siria ancora troppo marcate per pensare ad una possibile collaborazione. Il cessate il fuoco proclamato nel febbraio scorso regge solo sulla carta, mentre sul campo il confronto è più duro che mai, soprattutto nella zona di Aleppo, definita da Bashar al Assad, la “Stalingrado siriana”.
Da quando è intervenuta nel conflitto siriano, Mosca ne ha capovolto le sorti riuscendo a impedire la sconfitta del governo, stretto tra gli attacchi delle milizie ribelli e dello Stato islamico. L’intervento russo ha un duplice significato: da un lato è funzionale agli interessi strategici di Mosca, dal momento che la Siria è uno degli alleati storici in Medio Oriente e l’unico paese ad ospitare una base militare russa nel mediterraneo. Dall’altro è servito a dimostrare che la Russia è di nuovo una potenza globale, capace di incidere sull’esito di un conflitto. La partecipazione diretta nel conflitto siriano ha permesso poi a Mosca di sedersi al tavolo dei negoziati di pace e di essere l’unico attore, insieme agli Stati Uniti, in grado di porre fine al massacro. La caccia ai jihadisti di Isis e Al-Nusra, ne ha fatto l’unica potenza schierata sul campo a difesa anche degli interessi dei paesi occidentali. Insomma, i militari russi stanno facendo il lavoro sporco, in cambio europei e statunitensi chiudono un occhio sulla transizione al potere in Siria, permettendo a Bashar al Assad di rimanere in sella.
Vladimir Putin ha presentato il suo intervento in Siria come una battaglia tra il bene e il male. La riconquista di Palmira, il concerto tenuto nel suo splendido anfiteatro così come il sacrificio di Alexander Prokhorenko, soldato delle forze speciali che andando incontro a morte certa ha chiamato un bombardamento aereo sulla sua posizione pur di arrestare l’avanzate delle milizie dello Stato islamico a Palmira, hanno mostrato al mondo intero che la lotta della Russia e del governo siriano è la lotta per la civiltà contro la barbarie. Un’abile operazione di marketing politico funzionale per convincere gli occidentali a negoziare alle condizioni di Mosca. La Siria è l’esempio lampante del ritorno del Cremlino in Medio Oriente. Dopo il fallimento degli esperimenti delle primavere arabe e dell’Islam politico, l’amministrazione statunitense si è progressivamente ritirata dal teatro mediorientale per concentrare i suoi sforzi sul pacifico, dove la crescita della Cina preoccupa più di quella del jihadismo. Il vuoto lasciato è stato prontamente occupato da Vladimir Putin che, grazie alle relazione di amicizia e partenariato con lran e Siria, è riuscito a trasformare la Russia nella nuova potenza straniera egemone della regione.
Lo scoppio della guerra civile siriana ha messo seriamente a rischio la tenuta delle sue ambizioni e obbligato il Cremlino a intervenire prima che fosse troppo tardi. Ma la Russia è in Siria anche per chiudere i conti con il fondamentalismo islamico. Nelle file dell’Isis i ceceni rappresentano una delle maggiori componenti. I battaglioni del georgiano al Shishani, ucciso da un raid americano lo scorso marzo, raccolgono ceceni e caucasici tra i più feroci e meglio addestrati. Il rischio foreign fighters è altissimo, senza considerare che il revival jihadista rischia di acuire la tensione nelle regioni caucasiche come Daghestan e Cecenia. Mosca non può permettersi un’altra guerra come quelle che hanno insanguinato la Cecenia negli anni ’90. Le incursioni in Siria assumono così anche il significato di protezione della sicurezza e dell’interesse nazionale, una carta spendibile nei confronti di un’opinione pubblica fermamente contraria a qualsiasi intervento fuori dai confini del paese, memore del disastro afgano del 1979.