Cerimonia blindata a Mosca, in Russia, per l’inaugurazione dei mondiali di calcio 2018. Lo spettro di azioni eclatanti da parte dell’Isis aleggia sulla capitale russa e sulle altre città ospitanti.
Da mesi la propaganda legata ai seguaci di Abu Bakr al Baghdadi diffonde sul web e sui maggiori social network, quasi a cadenza quotidiana, immagini, slogan e video rivolti ai cosiddetti muwahid esortandoli a colpire gli interessi russi e, in particolare, l’evento che più di ogni altro si presta a una vetrina internazionale senza eguali.
L’intelligence del Cremlino lavora da mesi alla preparazione del dispositivo di sicurezza rivolto a prevenire, e nel caso reprimere nell’immediatezza, ogni atto ostile contro la manifestazione. Ovvio che la tensione sia palpabile, apparentemente velata dal carattere glaciale e poco propenso alle emozioni dei russi. Ma la preoccupazione cresce con il passare delle ore.
L’Fsb, il servizio federale per la sicurezza (Federal’naja služba bezopasnosti), ha immaginato numerosi scenari: dagli attacchi con sciami di droni alla presa di ostaggi, dal posizionamento di ordigni alle azioni degli “inghimasi” (letteralmente tuffo tra i nemici), i temibili miliziani addestrati a irrompere tra le file “nemiche” e di sacrificare la vita solo dopo aver terminato le munizioni ed ogni armamento disponibile.
La prevenzione dalle minacce di basso profilo, hooligan britannici in primis, è stata affidata, a circa 15.000 guardie di sicurezza e 17.000 steward, mentre polizia ed esercito saranno impiegati per i servizi di sicurezza all’esterno degli stadi e nei centri nevralgici delle dodici città interessate dall’evento. I servizi segreti russi e le forze speciali, gli Specnaz, appartenenti alle diverse forze armate ed alla polizia federale, saranno dislocati in prossimità dei centri urbani garantendone un’ampia mobilità con elicotteri e motoscafi per i diversi teatri.
Le flotte di mar Nero e mar Baltico sono state mobilitate in funzione anti-missile e per la vigilanza aero-navale, mentre l’aeronautica garantirà il rispetto delle oltre 50 no-fly zone imposte dal dispositivo di sicurezza, oltre all’attivazione di “dispositivi di disturbo” dislocati in località “top-secret”.
I controlli sulle persone sono già in atto da settimane a cura dei reparti antiterrorismo. Nello specifico sono stati sottoposte a controllo in special modo le grandi aree urbane del Caucaso e le dogane d’ingresso dall’area europea e medio-orientale.
A fronte dell’imponente dispositivo i seguaci dello Stato Islamico continuano a diffondere imperterriti i loro deliranti appelli a colpire rivolte ai lupi solitari ed alle cellule operanti in Asia ed Europa.
Particolarmente attiva la fazione legata alla “Abd al Faqir media foundation” che, tramite i canali Telegram, ha diffuso decine di immagini foto-montate e videomessaggi rivolti agli adepti tentando di fomentare gli animi e a indurli a passare all’azione contro i miscredenti russi responsabili dei bombardamenti in Siria contro il Califfato.
Il continuo incitamento all’azione da parte dei cyber-terroristi, sebbene non possa essere sottovalutato, sembra comunque fare parte di una strategia basata sullo spontaneismo dei singoli, sul “massimo risultato con il minimo sforzo”, piuttosto che sulla reale capacità di attivare cellule predisposte all’azione con piani predefiniti.
Per i grandi network jihadisti appare quantomeno ovvia la necessità di riproporsi, in chiave mediatica, sul palcoscenico internazionale.
Le casse delle organizzazioni languono e i reclutamenti latinano. La perdita di enormi quantità di armamenti, territori e l’eliminazione o la defezione di masse di miliziani fedeli da parte di un Califfato ormai defunto impongono ai vertici dell’Isis la riproposizione, non più di grandi strategie di conquista, ma il ritorno a tattiche di “stillicidio quotidiano” al fine di diffondere nuovamente il panico e tentare di riacquistare, agli occhi degli adepti, la visibilità e la fiducia andati persi negli ultimi mesi.
Da parte nostra, il rischio è che l’Occidente incorra in una sottovalutazione del fenomeno jihadista, così come accaduto nei periodi di relativa tranquillità seguiti alle azioni più eclatanti di al Qaeda o del Daesh.
Se da una parte le azioni terroriste si sono rarefatte sul continente europeo, dall’altra si assiste a una progressiva crescita di attacchi di basso profilo nel nord e nel Corno d’Africa, in Medio Oriente e Asia, in una quasi riproposizione dello scenario già vissuto negli anni precedenti alla tragedia dell’11 settembre.