Un narcotrafficante con il volto coperto. Nelle mani due pistole, gli occhi a favore di foto. È questa l’immagine di copertina di un reportage dell’Associated Press, che descrive la realtà delle favelas di Rio de Janeiro e del dominio dei narcos, ad una settimana dall’inizio delle Olimpiadi 2016.
Distretti di Ipanema e Copacabana, cuore di Rio. I narcos, fucili d’assalto alla mano, controllano la giornata di 100.000 abitanti nella favela Alemao. Barattano la fiducia degli abitanti con cibo e medicine. E quella che si crea è una vera e propria comunità. A controllare gli angoli bui e labirintici delle baraccopoli, ragazzini giovanissimi, nominati guardie di un luogo che sembra lontano anni luce, ma è realtà, tangibile e vicina.
Dopo la morte, a metà giugno, del re del narcotraffico Jorge Rafaat Toumani, l’organizzazione è in cerca di una nuova guida, che controlli il traffico di marjuana e cocaina in tutto il sud America. Un’elezione a colpi di pistola che coinvolge numerosi gruppi criminali, tra cui tre brasiliani, con sede a San Paolo, Santa Catarina e Rio de Janeiro. Una guerra totale che destabilizza il triangolo Brasile-Paraguay-Argentina, a cui le forze militari e di polizia non riescono a porre rimedio. Lo dimostra l’accoglienza a colpi di fucile destinata alle forze nazionali al loro arrivo, qualche settimana fa, a Rio de Janeiro. Dall’inizio del 2016 sono 61 i poliziotti uccisi, quasi sempre fuori servizio.
Mai nella loro storia i Giochi si erano tenuti in una città così violenta. Venticinque omicidi ogni 100.000 persone, quasi il doppio di Messico ’68. Il sindaco Eduardo Paes l’ha soprannominata “cidade perigrosa”, ribaltando l’immagine di una Rio “meravilhosa”, nelle note del cantautore André Filho. Eppure, dai tragici picchi di criminalità registrati nel 2007, la città è diventata più sicura. Negli anni a cavallo tra i Mondiali 2014, però, più della metà dei delitti è stato compiuto dalle forze dell’ordine con colpi di arma da fuoco. Cifre in continuo aumento che superano perfino quelle statunitensi. Secondo un rapporto di Amnesty International l’identikit della vittima è sempre la stessa: maschio, nero, di un’età compresa tra i 15 e i 29 anni.
Una condanna anche razziale che tiene conto del fatto che il profilo del narcos e dell’abitante delle baraccopoli spesso possono coincidere. Ciò che è certo è che sono proprio le favelas teatro di questa sanguinosa lotta che il governo brasiliano non è mai riuscito ad arginare. Di fronte a questa quotidianità di spari e povertà, i grandi eventi, presentati come medicina, hanno spesso amplificato i problemi. In soli due anni l’organizzazione dei Mondiali prima e delle Olimpiadi poi hanno trasformato il Brasile in maniera strutturale, ma la minaccia dei narcos non si è mai affievolita. La politica di pacificazione attivata nel 2008 ha portato scarsi risultati. L’occupazione militare delle favelas, il sequestro delle armi e la disponibilità di accesso ai servizi per gli abitanti delle baraccopoli ha solo congelato il problema, per non farlo esplodere di fronte a turisti e stranieri.
La moltiplicazione delle operazioni di polizia finalizzata ad una maggiore sicurezza, inoltre, ha generato ancora più vittime: 1200 solo nel 2015. Jhonata Dalber Mattos è una di queste: 16 anni, ucciso il 30 giugno mentre tornava a casa per festeggiare il compleanno del fratellino di 4 anni. Ennesima vittima innocente di una lotta infinita, senza esclusione di colpi. Sono 265 i conflitti a fuoco, solo nell’ultima settimana.
Persino il villaggio olimpico lascia molto a desiderare. Fili elettrici scoperti, scarichi del wc non collegati e infiltrazioni d’acqua in diversi appartamenti confermano che i lavori sulla struttura non sono ancora terminati, a pochi giorni dall’inizio delle competizioni. Per questo motivo la delegazione australiana ha deciso di riportare i suoi atleti in albergo fino a quando le stanze saranno messe a posto. Il Coni, dal canto suo, ha arruolato in gran fretta alcune squadre di elettricisti, idraulici e muratori “per far sì che le condizioni di alloggio delle atlete e degli atleti azzurri possano essere messe al più presto nelle condizioni di normalità”, si legge nel comunicato diramato dal Comitato italiano.
Anche la libertà di comunicazione dei cittadini inizia a subire dei colpi. Pochi giorni fa, per la terza volta dal dicembre scorso, l’autorità giudiziaria ha imposto un blocco orario di WhatsApp, dopo il rifiuto dell’azienda di fornire informazioni utili su alcune comunicazioni avvenute tra gruppi di sospetti narcos. Lo stesso era accaduto anche con Facebook, vicenda che si era aperta con l’arresto del vicepresidente per l’America latina della compagnia di Zuckerberg.