a cura di Yamas e Francesca Musacchio
Il nostro intento, come magazine dedicato alla sicurezza, è stato quello di verificare l’altra parte della verità sulla situazione in Medio Oriente e in Israele in particolare. Il mainstream offre poco spazio a storie che siano alternative alla realtà fornita dai racconti “di parte” palestinese. Mentre pochi, o forse nessuno, ha offerto la medesima visibilità all’altro fronte. Noi abbiamo cercato di farlo.
Durante la nostra recente visita in Israele abbiamo avuto modo di toccare con mano e di verificare l’applicazione del modello di “sicurezza partecipata” in vigore nello Stato ebraico.
Appare superfluo perdersi nella descrizione delle tecnologie messe in campo delle quali siamo stati portati a conoscenza e per le quali teniamo a mantenere la riservatezza richiestaci, anche se, non rappresentano certo nulla di trascendentale, anzi, addirittura residuali se non connesse al profondo senso di responsabilità e di partecipazione insito in ogni cittadino dello Stato ebraico e di ogni delegato alla sicurezza.
Pragmatismo. Sembra essere questa la parola d’ordine maggiormente diffusa tra i responsabili e gli addetti alla sicurezza dello Stato ebraico. Nessuno spazio a chiacchiere inutili, parate in grand’uniforme, arcaici regolamenti o ridondanti divieti. Spazio alla spontaneità, al rispetto dei diritti ma, soprattutto, alla tutela del cittadino. E così, abbiamo trovato splendide ragazze con lunghi capelli portati sciolti sotto al basco o al cappello di ordinanza ed unghie laccate mentre, in uniforme dello “Tsahal” (l’esercito israeliano), o della polizia di frontiera (Magav), o ancora della Polizia di Stato (Mishteret Yisrael), armate di tutto punto, si intrattenevano con coetanei nelle strade della movida di Gerusalemme, arrivando ad accennare anche a qualche passo di danza, ma sempre pronte ad allertarsi per qualsiasi rumore, presenza sospetta o comportamento inusuale. La serrata vigilanza approntata nelle vie della Città Santa è fatta anche di questo. Ragazzi e ragazze pienamente responsabili di vestire la loro uniforme ed imbracciare le armi in difesa di uno Stato, quello israeliano, che rappresenta una propaggine occidentale in Medio Oriente, e per questo violentemente attaccato da più fronti.
Abbiamo incontrato militari sulla linea della metropolitana leggera a Jaffa Street, mentre al termine del servizio rientravano a casa portandosi il loro M16 a tracolla, che costituisce, per loro, un’appendice irrinunciabile. Anche questo è sicurezza. La presenza di giovani in uniforme tra i pendolari è rassicurante e godono del pieno rispetto della gente comune, di qualsiasi estrazione o religione.
Abbiamo sperimentato i tempi di intervento delle forze di polizia nel pieno centro della città vecchia di Gerusalemme, nel suk. I poliziotti raggiungono il luogo indicato a piedi in meno di tre minuti seguiti a breve da una pattuglia dell’esercito ai quali comunicano l’entità dell’incidente, i coinvolti e le cause. Nel caso che ci ha visti testimoni, è stato allertato il servizio di pronto intervento medico che è giunto sul posto entro i cinque minuti successivi. Si trattava di un banale infortunio di un turista, ma la rapidità di arrivo dei soccorsi, tra gli affollati labirinti del mercato, non ha mancato di sorprenderci. È incessante il viavai di pattuglie nel centro città, oltretutto non percorribile da veicoli ruotati. Esistono postazioni fisse o mobili che vengono spostate all’evenienza con movimenti a “fisarmonica” che non lasciano spazio a indebite intromissioni di alcuno.
Non abbiamo mai sentito urla o minacce. Pochi ordini, tassativi e accompagnati da azioni che tendono a porre in sicurezza gli operatori che vicendevolmente si coprono le spalle all’atto del controllo di persone che vedono in questo modo limitate le loro eventuali reazioni violente. Quasi tutti gli operatori, oltre all’ebraico, si esprimono correntemente in arabo e inglese. Tra loro, una moltitudine di etnie diverse. Ebrei americani, etiopi, inglesi, filippini, polacchi, tutto il mondo è rappresentato nell’esercito israeliano. Parlando con alcuni di loro non abbiamo notato preclusioni verso alcuno. Molti hanno ragazzi palestinesi tra i loro amici, tutti conoscono i negozianti arabi del centro città verso i quali ripongono la stessa meticolosa attenzione che dedicano a quelli ebrei. Camminando per questi vicoli percorsi in contemporanea da imam, pope, haredim, rabbini, preti, suore e comitive di pellegrini di tutti i credi religiosi, viene spontaneo chiedersi il perchè di tanto odio. Eppure camminano sfiorandosi, a volte salutandosi, percorrendo gli stessi itinerari anche se con destinazioni diverse. Qui, negli angusti vicoli di Gerusalemme, si convive senza apparenti difficoltà. Forse gli ostacoli allo sviluppo di un rapporto “normale” non si trovano qui. Sono altri i luoghi dove si predica l’odio e si fomenta la violenza, ma avremo modo di parlarne ampiamente.
All’ora della preghiera chiamata dal muezzin della moschea della Rocca, lo spiegamento delle forze sicurezza è impressionante. Folti gruppi di musulmani si avviano verso la spianata delle moschee incrociando i credenti di religione ebraica, reduci dal Muro del pianto. Ma, ancora, non succede nulla. Forse qualche mainstream ha voluto un pò forzare la mano su tensioni neanche troppo latenti ?
Dentro il centro di comando e controllo
Un nostro amico della sicurezza israeliana, responsabile per la zona che andremo a visitare, ci accoglie calorosamente nei pressi del confine immaginario tra la colonia ebraica di Efrat e i margini di Betlemme.
All’ingresso dell’insediamento israeliano recintato da fossati, filo spinato e monitorato da telecamere di sicurezza, oltrepassiamo un checkpoint dell’esercito da dove i militari, da una torre di osservazione, possono controllare un’ampia area circostante. Nelle strade si respira un’ aria di pacata tranquillità. Le villette dei coloni sono poste ai lati del viale principale costeggiato da siepi e aiuole fiorite. Un piccolo centro commerciale rappresenta il centro della colonia verso il quale convergono le vie secondarie. Quest’atmosfera idilliaca si scontra, però, con la vista di armi portate alla cintola da tutti i residenti maschi dell’insediamento e da qualche donna addetta alla vigilanza.
È la placida, tesa, normalità della vita quotidiana in una colonia. Il clima non è certo quello di un assedio, ma quasi. Il nostro amico, dopo averci ricordato i doveri di estrema riservatezza che dovremo mantenere, ci conduce verso una porta blindata situata in un sotterraneo sotto il livello stradale. Entriamo in quello che ci viene presentato come rifugio e centro di comando e controllo. Un’area di diversi metri quadrati nella quale trovano posto una moderna sala operativa munita di monitor, apparati ricetrasmittenti, linee di emergenza e presso la quale sono impiegate due ragazze che svolgono il loro servizio civile, alternativo a quello militare, a disposizione della collettività. Qui giungono tutte le chiamate di emergenza della zona e vengono disposti i soccorsi che vanno dal semplice incidente stradale alle eventuali incursioni da parte di estranei. Ma sono pochi gli interventi delle forze di sicurezza, per lo più concernono sconfinamenti involontari da parte di contadini palestinesi con i quali gli addetti alla sicurezza hanno da tempo stabilito rapporti di buon vicinato. Quindi, non rappresentano un problema. In un’altra sala si trova una pattuglia armata della polizia che 24 ore su 24 è a disposizione per eventuali allarmi. Sono tutti muniti delle più moderne tecnologie in fatto di sicurezza passiva e armamento. Nei loro zaini si trova di tutto. Dai caricatori di riserva con munizionamento ordinario e di gomma, kit di pronto soccorso, sfollagente, caschi antiproiettile, visori notturni. Insomma, un vero e proprio armamentario che li rende disponibili a qualsiasi evenienza senza perdere minuti preziosi in vestizione e distribuzione.
Le alture della Giudea e Samaria
Conosciamo un inglese e un americano che ci accompagneranno durante la nostra perlustrazione ai confini con i territori dove vivono gli arabo-palestinesi. Sono ragazzi sulla trentina, cordiali, professionali e determinati, ben consci del delicato compito affidatogli. Sono considerati una solida ossatura per tutto l’apparato responsabile del mantenimento della sicurezza per le famiglie residenti nella colonia e questo li rende ancor più indispensabili ai fini della deterrenza di eventuali atti ostili. Collegati via radio con la centrale operativa, ci conducono sulle colline prospicenti la zona abitata dagli arabi. Non vi sono pericoli apparenti, ma siamo completamente allo scoperto e il Suv su cui percorriamo i sentieri sterrati può costituire un bersaglio di prim’ordine per chiunque. Ma le auto di servizio, pur essendo ben note anche alla comunità palestinese, non rappresentano un obiettivo, anche grazie all’opera di mediazione preventiva svolta dall’intelligence israeliana.
Dalle alture si domina un’ampia fetta di territorio della Giudea e Samaria. Il panorama è sconfinato ma presenta, a colpo d’occhio, una notevole differenza. Le aree degli insediamenti ebraici che ci vengono indicate dalla nostra scorta presentano subito un’evidente caratteristica: sono tutte riconoscibili da una folta vegetazione di alberi da frutta, olivi e campi coltivati, a differenza dell’amplissima area abitata dagli arabo-palestinesi che è per lo più rappresentata da terreni incolti, costruzioni non terminate, strade sterrate. Mentre i coloni israeliani sono riusciti, con il tempo, a costruire canali di irrigazione e acquedotti, anche sfruttando le costruzioni preesistenti risalenti alle varie dominazioni che nella storia si sono avvicendate nella zona, i palestinesi appaiono quasi disinteressati allo sviluppo positivo del territorio. Non è un parere politico di parte. Quella che si presenta ai nostri occhi è la triste realtà di una situazione che si trascina da decenni durante i quali alla guida dell’Autorità palestinese si sono avvicendati vari leader, anche autoproclamati, che hanno preferito pensare al proprio tornaconto personale, piuttosto che devolvere i lauti aiuti internazionali ottenuti per la fornitura alla popolazione dei mezzi idonei al loro sviluppo e al sostentamento delle famiglie. Ma questa è una realtà che toccheremo meglio con mano quando passeremo il confine diretti nei territori palestinesi. (continua…)