Procurarsi scarpe e vestiti per andare a giocare a calcio facendo una traversata. La frase di per sé innocente, in un contesto di normalità farebbe pensare ad una conversazione tra due turisti in procinto di partire. Ma nel 1997, con un dialogo di questo tipo, si ottenevano documenti falsi per partecipare ad una riunione dopo un viaggio in Bosnia. E gli interlocutori, intercettati dalla Procura di Bologna, non erano turisti, ma maghrebini riuniti in una vera e propria cellula jihadista impegnata nel procacciamento appunto di documenti falsi, denaro, armi per il sostegno ad organizzazioni paritetiche che agivano in Europa e nei Balcani allo scopo di internazionalizzare la jihad.
Un passato che appare lontano, se non fosse che i protagonisti di dialoghi come quello riportato sono gli odierni difensori di Sirte. Mujaheddin dal passato italiano che dopo le lievi pene scontate nelle galere della Penisola, non certo redenti, hanno ricominciato la loro peregrinazione in cerca della morte eroica che consentisse loro di bearsi delle 72 vergini in paradiso.
Tra loro molti avevano seguito i corsi di addestramento in Afghanistan (in quello che nel gergo jihadista era noto come Haidora, da haia dora cioè giro nel cerchio). Proprio il soprannome di afghani, quindi reduci e nominati mujaheddin, li rendeva quasi sacri agli occhi degli adepti che in estasi li udivano commentare le sure coraniche dando un significato quasi nuovo alle sacre scritture, reinterpretate ad uso e consumo degli astanti in chiave jihadista. Ma anche Peshawar, nel nord del Pakistan, era la meta preferita dagli aspiranti mujaheddin. Città non lontana dal confine con l’Afghanistan, era la residenza dell’ex muratore Moez Fezzani ben Abdelkader, tunisino, responsabile dell’Isis in Libia. Dal Pakistan Fezzani manteneva i contatti con le cellule italiane e si occupava dell’accoglienza dei tunisini diretti in Afghanistan.
Proprio i reduci dall’addestramento nei campi di Al Qaeda, ed altri miliziani nel conflitto balcanico degli anni’90, hanno trovato modo di continuare a perseguire il loro folle ideale di jihad.
Jarraya Khalil, alias Amro, chiamato il colonnello per i suoi trascorsi di ufficiale presso il battaglione Mujaheddin di Zenica, aveva trovato alloggio a Sarajevo, non lontano da una moschea nota per essere legata al movimento integralista wahabita locale. Ma il suo attivismo lo portava spesso in Italia, in provincia di Bologna, da dove impartiva ordini alle varie cellule collegate a quelle esistenti in Francia e Belgio, nazioni per le quali erano stati preparati piani di azione in danno della popolazione e di edifici civili allo scopo di esportare la jihad sul continente europeo. Arrestato e detenuto in Italia, nel 2015 viene espulso alla volta di Sfax, in Tunisia. Nella città portuale quotidianamente si organizzano i viaggi dei clandestini alla volta della Sicilia, e Jarraya pare si sia interessato all’attività per continuare la sua jihad, questa volta in chiave logistica, trasferendo i fondi raccolti dai profughi direttamente nelle casse dell’Isis in Libia. Nell’agosto scorso proprio a Sfax, la polizia tunisina ha tratto in arresto un noto jihadista che insieme ad altri cinque si stava imbarcando alla rotta dell’Italia. Sarà un caso.
Tra Fezzani e Jarraya il trait d’union, oltre ai comuni trascorsi in Italia, sono gli altri miliziani di comune conoscenza. Anche Essid Sami ben khemais ha da tempo ripreso le sue attività di supporto al terrorismo, dapprima apparendo a fianco di Seifallah ben Hassine, Abu Iyad, e successivamente prendendo parte ai combattimenti in Libia, ovviamente schieratosi con il Califfato. Essid Sami è noto alle cronache per essere il tunisino residente in provincia di Varese che durante le intercettazioni ambientali conversava amabilmente sulle modalità per colpire i paesi europei con armi chimiche confezionate artigianalmente. Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2009 ha condannato l’Italia per il rimpatrio forzato del tunisino poiché ha stabilito che nel paese nordafricano l’uomo sarebbe stato rinchiuso in un carcere rinomato per le torture ai detenuti.
A Tunisi nel 2009 viene rimpatriato anche Tarek Maaroufi, complice di Essid Sami, balzato alle cronache per il suo coinvolgimento nell’omicidio di Ahmed Shah Massoud, leader della resistenza afghana contro i talebani, morto in Aghanistan nel 2001 per mano di due tunisini travestitisi da giornalisti, ma imbottiti di esplosivo. Proprio Maaroufi avrebbe capeggiato il commando di attentatori e, anche se sul suo conto le notizie sono frammentarie, è ipotizzabile un suo coinvolgimento diretto con le milizie dell’Isis, tenuto conto della sua abilità di mujaheddin ed il suo credo profondamente radicato ed anti occidentale.
Anche Nasri Riad e Mehdi Kammoun, entrambi tunisini ed in stretto collegamento con Jarraya Khalil ed Essid Sami, sarebbero stati segnalati proprio a Sirte. La loro storia giudiziaria segue lo stesso filone tracciato per gli altri: i sentimenti antioccidentali, l’addestramento, il passato in Italia e l’adesione al Califfato.
In chiave prospettica occorre considerare che tutti coloro i quali hanno operato per lungo tempo nel nostro Paese si sono dedicati per lo più all’indottrinamento ed al reclutamento di nuove leve. L’espulsione dei fautori di tali attività non può certo aver precluso la strada alla creazione di nuove cellule formatesi nel frattempo ed in attesa di agire. Ripercorrere la cronistoria dello jihadismo in Italia, anche a livello processuale, potrebbe condurre all’identificazione degli ignoti interlocutori delle cellule individuate, oltre ad aprire nuovi filoni investigativi volti a scongiurare i pericoli futuri ed evitando, magari, di agevolare la jihad itinerante alla quale assistiamo da anni da parte di soggetti conosciuti da tutti, ma puniti da nessuno.