I giovani del Mediterraneo possono essere la “soluzione e non il problema”, possono essere “la risposta alle grandi sfide che l’intera area sta affrontando”. E’ questo il messaggio lanciato durante l’incontro “Youth and the Mediterranean: Exploring New Approaches to Dialogue and Cooperation” organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (Iai) e dalla presidenza italiana dell’Osce. Medio Oriente e Nord Africa stanno attraversando delle grandi crisi e a minare la sicurezza ci sono in particolare gli enormi flussi migratori, la stabilità dei governi sgretolata, i disastri ambientali e il fenomeno della radicalizzazione crescente tra i giovani. Tutti questi fattori rendono più forte il richiamo verso il terrorismo, verso un’estremizzazione violenta. A margine della conferenza, OFCS.Report ha intervistato Djallil Lounnas, ricercatore dell’Al-Akhawayan University, che ha fatto parte dei programmi di de-radicalizzazione in nord-Africa.
“Sono partiti tre anni fa dei progetti dedicati alla de-radicalizzazione di giovani – spiega l’esperto – nella zona del nord Africa e Sahel. Sono stato a contatto anche con dei terroristi che sono stati implicati in attacchi dell’Isis. Uno era lì in questo programma perché gli avevano chiesto di farsi esplodere in Iraq, ma lui non ha voluto. Il progetto – continua – diventa una sorta di difesa e un momento per mettere in discussione l’ideologia”. Djallil Lounnas è uno dei tanti ricercatori dei paesi del Mediterraneo che è voluto andare a fondo del problema del terrorismo, in particolare la sua esperienza a contatto con i terroristi è stata molto forte. La sua voce trema mentre, invitandoci a spegnere la telecamera, inizia a raccontare senza tuttavia rivelare i nomi dei terroristi.
I due estremisti implicati in veri e propri attentati sono due Phd, due dottorandi, con un’istruzione altissima. “Erano ben vestiti – continua Lounnas – venivano da famiglie benestanti, di classi sociali alte. E la loro educazione è ottima, sono laureati nelle migliori università. La verità è che lo stereotipo delle sole persone ignoranti che si radicalizzano è falso. Mi spiego meglio: magari la massa, la bassa manovalanza è composta da persone che non avendo un’identità forte si fiondano negli estremi. Ma sono i più facili da convincere ad uscire da un’organizzazione terroristica se viene offerta loro un’alternativa. I più radicalizzati sono i più istruiti. Chi ha compiuto una vera e propria scelta, una decisione cosciente a compiere violenza nel nome dell’ideologia. Vogliono cambiare lo status quo delle cose, pensano di cambiare il mondo. Sono i più pericolosi perché non cambieranno idea. Hanno tra i venti e i trenta anni, non sono sposati e non hanno niente da perdere, potrebbero avere tutto con la loro educazione, ma sono sprezzanti. Hanno nell’Isis posizioni gerarchiche di più valore e portano conoscenze di ingegneristica, logistica, aspetti militari a cui gli altri non arrivano”.
Spesso si pensa alla zona del Medio Oriente per identificare lo Stato Islamico, ma la Libia, il Niger e il Mali saranno i veri problemi per i prossimi anni. Scovare le fasce di chi si arruola è fondamentale per prevenire. “Non ho assistito con i miei occhi all’identificazione di soggetti radicalizzati in prigione – spiega Djallil Lounnas – ma posso dirvi che questo è un fenomeno critico. Non si possono mettere insieme nella stessa cella terroristi e giovani molto fragili che hanno compiuti reati comuni. E’ successo più e più volte che un ragazzo entrato per scontare qualche mese, sia poi uscito come soldato dell’Isis perché entrato in contatto con terroristi. Nei programmi di sicurezza a cui partecipo si è detto più e più volte che è importante avere dei luoghi di detenzione speciali”.
E’ un processo lunghissimo: prima vengono individuate delle persone che, o si sono pentite e non sanno come uscirne, o si identificano giovani che stanno compiendo il percorso di radicalizzazione. “E’ complesso perché oggi sempre di più c’è una radicalizzazione fatta in casa – continua il ricercatore – attraverso i video e i social network. Attraverso delle letture in camera, da soli, senza alcun confronto con il mondo. Poi non si sradica il terrorismo in un solo giorno, si tratta di mesi, anni in cui queste persone si immergono in realtà che avevano abbandonato. Una giornata tipo che ho potuto vedere con i miei occhi, nei mesi in cui ho fatto ricerca nei campi di de-radicalizzazione: la mattina ci si dedica all’educazione religiosa, smontando i precetti dell’Isis e le ideologie terroriste inesistenti nel Corano. Nel pomeriggio c’è la forte presenza delle attività: workshop, formazione, tirocini e lavoro vero e proprio. Per far vedere che c’è un’alternativa non violenta per la realizzazione personale”.
Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ci sono i giovani che rispondono a tutta questa violenza. Chi si oppone all’Isis già da ragazzo e che con azioni sociali e civili sta combattendo il terrorismo. “Ho visto tanti ragazzi partecipare volontariamente a questi progetti di de-radicalizzazione – conclude Djallil Lounnas, ricercatore dell’Al-Akhawayan University – senza neanche un compenso, come insegnanti o psicologi o assistenti sociali. Sono persone che vogliono contribuire a lottare contro questa piaga del Mediterraneo. Pensano che questo si possa fare, non tanto togliendo completamente l’ideologia che, come detto, è difficile contrastare nelle persone molto istruite, ma attraverso il lavoro e il dialogo: elementi che possono cancellare da quell’ideologia la parte violenta“.