Se c’è qualcuno al mondo felice per l’elezione di Donald Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti, questi è di certo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Con Obama i rapporti non sono mai stati semplici. Posizioni divergenti, forti tensioni e recriminazioni su questioni diplomatiche di rilievo, come il programma nucleare iraniano, hanno sempre messo a dura prova le relazioni bilaterali tra i due paesi, senza mai comprometterle tuttavia in maniera definitiva. Gli Stati Uniti continuano a essere il principale alleato di Israele e lo stanziamento di 38 miliardi di dollari di aiuti militari su dieci anni concesso a settembre da Washington a Tel Aviv, ha di certo contribuito al consolidamento di questo status. Una delle questioni, però, sulle quali Netanyahu non è riuscito a convincere Obama riguarda la costruzione di colonie in Cisgiordania. Per il leader israeliano esse non rappresentano un ostacolo alla pace in Medio Oriente. Per il presidente uscente, invece, sì.
L’epilogo di otto anni di scontri e incomprensioni è la Risoluzione Onu 2334 che condanna gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est definendoli “flagrante violazione ai sensi del diritto internazionale e grande ostacolo alla soluzione dei due stati”. Il testo è stato approvato lo scorso 23 dicembre. A favore hanno votato 14 dei 15 membri e gli Stati Uniti, per la prima volta, hanno deciso per l’astensione, non utilizzando il potere di veto che solitamente blocca l’applicazione di ogni risoluzione che riguardi Israele. Il testo non è vincolante, e dunque poco cambierà in concreto nella politica con cui Tel Aviv gestisce gli insediamenti. Ma l’astensione di Obama è stata percepita da Israele come un sonoro schiaffo da parte dello storico alleato statunitense.
Netanyahu, furioso, ha convocato, nel giorno di Natale, gli ambasciatori dei 14 Paesi che all’Onu si erano espressi a favore della Risoluzione. Ha annullato aiuti, cancellato inviti e visite, ha rifiutato di incontrarsi con i leader di Cina e Gran Bretagna. E infine, dopo aver personalmente espresso il suo disappunto all’ambasciatore Usa a Tel Aviv, Daniel Shapiro, ha accusato il presidente degli Stati Uniti di collusione e tradimento. Secondo il leader dello Stato ebraico, infatti, dietro al testo approvato in consiglio di sicurezza ci sarebbe Obama in persona: “Le informazioni che abbiamo – ha dichiarato pubblicamente il premier – indicano che il presidente ha seguito il processo e lavorato al testo”. Ma la Casa Bianca smentisce categoricamente.
Intanto, tre giorni dopo il voto del Consiglio di Sicurezza e nel pieno delle tensioni diplomatiche tra Israele e Stati Uniti, il Comitato per la pianificazione abitativa di Gerusalemme aveva annunciato l’avvio di un progetto per la costruzione di 618 nuove abitazioni negli insediamenti, nella parte orientale della città a maggioranza araba. Il 28 dicembre, però, la pianificazione viene annullata. La richiesta, secondo quanto riferito da fonti del Comitato edilizio, sarebbe giunta direttamente dall’ufficio di Netanyahu, che a riguardo ha preferito non rilasciare alcun commento. Tuttavia, fonti vicine al governo hanno fatto sapere che la decisione sarebbe stata presa per non aprire uno scontro formale con l’amministrazione Obama. Ma potrebbe trattarsi di un semplice rinvio. Tra meno di un mese alla Casa Bianca arriva Donald Trump.
L’insediamento ufficiale del neoeletto presidente degli Stati Uniti è previsto per il prossimo 20 gennaio, ma già nei lunghi mesi di campagna elettorale il miliardario del Queens non ha esitato a chiarire la sua posizione in materia di politica estera. Diametralmente opposta, neppure a dirlo, rispetto quella del suo predecessore e più incline a sostenere le posizioni di Israele. Il tycoon, lo scorso 16 dicembre ha nominato come nuovo ambasciatore Usa a Tel Aviv, David Friedman, un avvocato di estrema destra che sostiene e finanzia gli insediamenti israeliani e che già nelle scorse settimane aveva promesso di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme (rendendo di fatto la città territorio esclusivamente israeliano).
Dal canto suo Trump, che aveva chiesto pubblicamente a Obama di porre il veto contro la risoluzione del Consiglio di sicurezza, ha cristallizzato in un tweet il suo pensiero a riguardo: “Invito il popolo israeliano – si leggeva la scorsa settimana sul profilo Twitter del neoeletto presidente – a rimanere forte fino al giorno del mio insediamento, poi le cose cambieranno”. Nessuno aveva mai trattato Israele “con così poco rispetto”, precisava ancora il miliardario del Queens. “L’inizio della fine è stato l’orribile accordo con l’Iran, e ora, l’Onu. Sii forte Israele, il 20 gennaio si avvicina velocemente”.
Tuttavia, in attesa di Trump, Tel Aviv potrebbe subire presto altri colpi bassi: il prossimo 15 gennaio, infatti, pochi giorni prima della fine del secondo ed ultimo mandato di Obama alla Casa Bianca, la Francia ospiterà una conferenza di paesi mediorientali e non, con l’obiettivo di lanciare un piano di pace tra israeliani e palestinesi sulla base del principio di due Stati per due nazioni, entro i confini politici del 1967. Una nuova partita tutta da giocare per Netanyahu, già impegnato in questi giorni a risolvere un’intricata questione interna che lo vede coinvolto in un’indagine per appropriazione indebita.