di Simone Santucci per LabParlamento.it
La drammatica giornata a Westminster ha dato il suo verdetto: Theresa May è salva. Era un anno fa quando i primi segnali di una fronda parlamentare contro il Primo Ministro Theresa May avevano cominciato a minacciare il suo gabinetto e, con esso, tutto il percorso di Brexit. Dopo una strenua resistenza, una decina di dimissioni dal suo governo e una serie di cocenti sconfitte personali, stavolta, la fronda conservatrice aveva deciso di uscire allo scoperto. Ma non ce l’ha fatta.
I 200 voti conquistati dalla Premier non ingannino: non è un buon risultato. John Major, che pure non era certo Winston Churchill o Margaret Thatcher in quanto a popolarità, nel 1993 se l’era cavata meglio. E oltre un terzo dei parlamentari, 117 per la precisione, che hanno votato per la cacciata della May è un bottino che raccoglie consensi ben al di là della ormai famigerata ottantina di ribelli che, sin dal 2016, dà del filo da torcere a May.
In altri momenti – e la storia della più antica democrazia parlamentare del mondo ne è piena – Theresa May sarebbe già stata annoverata tra i former prime ministers, magari in giro per il mondo per qualche conferenza strapagata come già accaduto per i suoi predecessori Major, Blair e Cameron. Ma il macigno di Brexit e il suo necessario compimento ha rinviato, mille volte, il redde rationem. Se non fosse stato per Brexit per May le cose sarebbero quindi andate in modo diverso. L’ultima caduta di un Primo Ministro per un voto di censura rimane pertanto quella targata 1979, quando su impulso dell’allora capo dell’opposizione Margaret Thatcher il Governo di James Callaghan dovette dimettersi per un solo voto. Il laburisti non avrebbero messo più piede a Downing Street per i successivi 18 anni. Non era un voto interno, ma parlamentare. Come parlamentare sarà il voto sull’accordo relativo al negoziato e il risultato di stanotte non esclude che l’accordo su Brexit venga respinto comunque. Con conseguenze ancora da decifrare.
La salvezza della May non era affatto scontata, e lo si era compreso chiaramente già lunedì, quando con una decisione clamorosa, di fronte ad una umiliazione senza precedenti, Lady May aveva rinviato il decisivo voto sull’accordo con l’Unione Europea, una madre matrigna dalla quale separarsi, e i fatti stanno dimostrando, è operazione tutt’altro che agevole. E a fare la differenza è stato un gruppo di “responsabili” che, pur di non mandare al macero due anni di negoziati hanno preferito turarsi il naso e appoggiare l’anatra zoppa.