Il primo dato che salta agli occhi è quello numerico: il 51,3% dei votanti ha detto Sì alla riforma che trasforma di fatto la Turchia in uno Stato a conduzione a dir poco personale da parte dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan. Risultato contestato dalle opposizioni e peraltro ancora non ufficialmente confermato (la conferma arriverà tra almeno 10 giorni) dalla Commissione Elettorale turca. La stessa Commissione che, con una decisione dell’ultimo minuto, ha scelto di ritenere validi anche i voti espressi su schede prive di timbri e contrassegni elettorali, generando diverse critiche circa la regolarità del voto da parte dell’Osce secondo cui sarebbero oltre 2,5 milioni. Un punto questo su cui il principale partito di opposizione CHP ha già formalmente chiesto al Comitato Elettorale l’annullamento del risultato referendario. In centinaia si sono già messi in fila davanti agli uffici elettorali per firmare le petizioni con cui chiedere l’annullamento della decisione di ammettere anche le schede non affrancate, sostenendo che il voto si sia svolto in aperta violazione della legge.
Rimane da vedere come potrebbe eventualmente essere dato un giudizio totalmente indipendente in tal senso da parte di un organo di giustizia, alla luce della pressoché costante erosione di autonomia che esse hanno subito da parte del governo turco a trazione AKP (il Partito per la Giustizia e Sviluppo, a cui Erdoğan appartiene) dal 2014 ad oggi, e specialmente dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016.
Il risultato reale del referendum
Erdoğan ha comunque ottenuto quello che voleva: nonostante la ristretta maggioranza, ora ha in mano lo strumento legale che gli permette di mettere in pratica quello che dichiara di voler fare sin dalla sua elezione nel 2014, ossia trasformare la Turchia in uno stato “superpresidenziale”, facendo diventare la presidenza della repubblica turca una sorta di Sultano elettivo.
L’altro effetto che Erdoğan cercava in qualche modo di ottenere, l’unificazione del Paese sotto l’abbraccio protettore di un presidente padre della patria con poteri pressoché assoluti, legittimati dalla volontà popolare di una larga maggioranza, non è però avvenuto. Il potere del presidente infatti non risulta affatto consolidato. L’1,3% dei voti che ha consentito al Sì di vincere il referendum corrisponde a circa 1,20 milioni di preferenze, in un Paese di 75 milioni di abitanti. Un dato a dir poco esiguo, che contraddice alcune analisi della prima ora secondo cui il risultato sarebbe stato deciso dalle minoranze turche sparse nel mondo e specialmente in Europa: un margine troppo ristretto per poter dire quale gruppo di votanti, singolo e particolare, abbia deciso univocamente l’esito della consultazione.
Questo risultato si è anzi riflesso in una consistente perdita di consenso. Confrontandolo infatti con il 60% delle preferenze ottenuto dall’AKP alle ultime elezioni parlamentari in coalizione con i nazionalisti dell’MHP, i quali hanno comunque supportato il fronte del Sì in questo referendum, risulta evidente una perdita di quasi il 10% dei consensi. Segno che anche molti di quelli che avevano votato AKP alle ultime elezioni non hanno supportato la figura di un presidente plenipotenziario. In altre parole, nonostante l’opposizione in parlamento sia abbastanza debole, quasi la metà del Paese non crede nel cambiamento voluto da Erdoğan, il quale avrebbe comunque desiderato un mandato in qualche modo inequivocabile.
La distribuzione del voto
Un altro punto niente affatto secondario è la distribuzione del voto: Erdoğan ha perso le grandi città. Istanbul, Ankara e Izmir hanno votato No, e questo è un fatto che pesa e riflette la condizione di un Paese spaccato. Si tratta di un duro colpo per Erdoğan: perdere due città chiave come Ankara ed Istanbul non è cosa da poco, soprattutto considerando che entrambe sono storicamente luoghi a forte maggioranza AKP, per non parlare del fatto che che lo stesso Erdoğan è stato sindaco della città sul Bosforo dal 1994 al 1998. Le proteste (spontanee e non), specialmente nella europea e laica Istanbul, sono già numerose, a partire da domenica notte e per tutto lunedì e martedì. La spaccatura corre inevitabilmente lungo l’asse città-campagna, con la numerosa minoranza curda a fare da eccezione: pur vivendo in aree rurali scarsamente urbanizzate, i curdi del sud-est turco hanno votato compatti per il No.
Un paese spaccato
Questo referendum crea tuttavia una nuova spaccatura, che va ad aggiungersi a quelle già esistenti: turchi contro curdi, città contro campagna, islamisti contro laicisti, ed ora anche presidenzialisti contro parlamentaristi. Spaccatura di cui lo stesso Erdoğan sembra essere consapevole, che lo ha probabilmente spinto a deviare dai forti toni accusatori della campagna referendaria (dove aveva paragonato i sostenitori del No a dei terroristi) verso toni più concilianti, dichiarando che il risultato del referendum è una “vittoria per tutti i turchi”.
Anche se, con quasi metà del Paese che oltre ad aver votato contro mette in dubbio la veridicità del voto, diventa estremamente difficile tenere insieme la Turchia sotto l’ombra del forte decisore unificatore. E pone non poche domande su come Erdoğan deciderà di usare i suoi nuovi poteri, una volta che il cambiamento sarà divenuto legge.