Lo Stato islamico disporrebbe a tutt’oggi di circa 30.000 miliziani, tra i quali numerosi europei, che opererebbero nei territori di Siria e Iraq e avrebbe allargato il suo bacino di influenza tramutandosi da entità locale a network internazionale. E’ quanto scritto in un rapporto redatto da esperti delle Nazioni Unite e reso pubblico lo scorso 13 agosto.
L’Isis (o Daesh), avrebbe rinforzato i ranghi delle cellule operative in Afghanistan, Libia, Sud-est asiatico e Africa occidentale, mentre la concorrente rete di al Qaeda si sarebbe rinforzata nei territori di Somalia, Yemen, Asia meridionale e la regione africana del Sahel. Da non sottovalutare, inoltre, la crescita esponenziale della presenza di elementi di al Qaeda in Iran, dove pare abbia attecchito notevolmente la capacità comunicativa del leader Ayman al Zawahiri che avrebbe intessuto stretti rapporti con militanti locali di gruppi insorgenti di credo sunnita.
Secondo gli analisti delle Nazioni unite, se da una parte il flusso di jihadisti stranieri verso la Siria e l’Iraq si sarebbe fermato, “il flusso inverso, anche se più lento del previsto, rimane una seria sfida”. Anche se si è assistito a un deciso calo degli attacchi terroristici in Europa, la “corrente di risacca” rappresenta il vero pericolo per i paesi di origine dei miliziani del Daesh e la temporanea riduzione del numero di attentati nasconderebbe, in realtà, una riorganizzazione dei ranghi dell’Isis e di al Qaeda e, in contemporanea, l’insorgere di nuove entità minori nel panorama del terrorismo di matrice islamica.
Il rapporto Onu prende in esame la trasformazione del califfato da “proto-stato” a rete terroristica clandestina
Un processo in avanzato stato di realizzazione al cui apice, nonostante le notizie di decadimento fisico dovuto alle ferite patite durante i bombardamenti, si troverebbe ancora Abu Bakr al Baghdadi, intenzionato a esportare in modo più incisivo la jihad oltre i confini mediorientali.
Rischio per l’Italia
Nel dettaglio, gli analisti delle Nazioni unite, hanno esaminato diverse zone a rischio e, relativamente a quelle di interesse per il nostro Paese, è emerso che in nord Africa, nonostante la perdita di Sirte e dei continui attacchi aerei, l’Isis “ha ancora la capacità di lanciare attacchi significativi in Libia e oltre confine, tornando a tattiche asimmetriche e ordigni esplosivi improvvisati”. Le stime, in relazione al numero di miliziani del Daesh variano tra 3.000 e 4.000, operanti in tutto il paese nordafricano. Ma anche Al Qaida starebbe perseguendo l’obiettivo di una forte rinascita in Libia, questo attraverso i gruppi affiliati che tendono ad allargare il bacino di influenza oltre i confini con Tunisia ed Algeria.
In Africa occidentale la coalizione jihadista affiliata ad al Qaida ha aumentato sensibilmente il numero degli attacchi contro i contingenti militari francesi e statunitensi, estendendo le azioni nel Sahel anche contro gli interessi di altri paesi schierati nella coalizione antiterrorismo. Al Qaida nel Maghreb islamico avrebbe, inoltre, sollecitato i suoi miliziani a intensificare gli attacchi contro le compagnie private francesi. I membri dello Stato islamico nel Grande Sahara sarebbero, invece, attivi ai confini tra Niger e Mali, con minor impatto militare ma con una funzionale strategia di infiltrazione tra le popolazioni locali tesa ad allargare l’ideologia jihadista finalizzata al reclutamento di nuovi miliziani.
La minaccia jihadista in Europa
In Europa nel primo semestre del 2018, “la minaccia è rimasta elevata” ma “la cadenza degli attacchi e delle attività (dei gruppi jihadisti – nda) è stata inferiore rispetto allo stesso periodo del 2017″ e le azioni cruente “hanno coinvolto individui incensurati e ritenuti di basso profilo”. L’Isis ha continuato ad utilizzare le piattaforme dei social network per indurre i propri simpatizzanti in Europa a passare all’azione nei loro paesi d’origine e gli Stati membri dell’Ue hanno espresso grande preoccupazione per il rischio che i miliziani di ritorno possano diffondere le conoscenze e abilità legate alla fabbricazione di droni, ordigni esplosivi e autobombe apprese durante i periodi di addestramento e combattimento in Siria ed Iraq.
Un rapporto, quello dell’Onu, che altro non ha fatto che ribadire l’entità del pericolo di una diffusione a macchia di leopardo di cellule operative in Occidente che godono dell’afflusso di nuove reclute, debitamente indottrinate e addestrate negli hub jihadisti del Sahel, della Libia e del Sinai, mischiandosi, per il “grande balzo” in Occidente, tra le migliaia di clandestini in arrivo sulle coste europee.
Negli ultimi mesi, sia le investigazioni condotte dagli organi delegati alla sicurezza, sia anche alcune delle azioni perpetrate in Europa, hanno riguardato soggetti provenienti da paesi della zona del Sahel, in particolare, il Congo, il Sudan e il Niger, a conferma delle ipotesi che vedono proprio la questa fascia geografica come nuovo bacino di reclutamento per i cosiddetti “candidati al martirio”. Una tendenza, quest’ultima, sotto gli occhi di tutti e più volte rimarcata su queste pagine, che dovrebbe imporre una seria riflessione sulle politiche dell’accoglienza a tutti i costi e a chiunque, poste in essere da alcuni governi europei, fortunatamente, in via di estinzione.