In Algeria, da oltre due settimane, si infiamma la protesta contro la ricandidatura dell’ultraottantenne presidente Abdelaziz Bouteflika. E si conta già la prima vittima degli scontri: simbolicamente Hassan Benkhedda, figlio di Benyoucef Benkhedda, premier dell’Algeria che aveva appena conquistato l’indipendenza dalla Francia nel 1962. Negli anni successivi, il popolo algerino non ha mai beneficiato di un sistema di governo che garantisse la realizzazione delle prospettive di modernità e sviluppo che l’indipendenza aveva lasciato presagire. Il paese è stato così attraversato ripetutamente da forti tensioni politiche e sociali, sfociate poi nella terribile guerra civile degli anni ’90 (narrate nel volume Le Ombre di Algeri). É quanto scrive la giornalista Souad Sbai per La Nuova Bussola Quotidiana
Il ventennio di Abdelaziz Bouteflika ha riportato la stabilità, garantendo una formale laicità delle istituzioni, ma al prezzo di un pericoloso compromesso raggiunto con la Fratellanza Musulmana, il motore principale della guerra civile, la cui validità sembra essere ormai venuta meno. La crisi economica, dovuta al calo del prezzo degli idrocarburi, che costituiscono l’asse portante dell’economia algerina, ha contribuito al riacutizzarsi delle vecchie ferite, facendo allo stesso tempo emergere in superficie il malcontento della nuova generazione. Il popolo algerino è davvero allo stremo e la sua protesta è giustificata. Tuttavia, le rivendicazioni per una maggiore giustizia sociale e la fine della corruzione, per la trasparenza nello svolgimento delle elezioni e la libertà di stampa e di espressione, riecheggiano in maniera sinistra quanto accaduto in Egitto, Siria e Libia nel 2011.
Gli algerini hanno ragione nel volersi liberare dell’ancien regime, ma la loro rivolta non deve trasformarsi in una nuova Primavera Araba. Che dietro e nelle proteste in corso si annidi la Fratellanza Musulmana algerina non è un rischio meramente ipotetico. La Fratellanza ha infatti lasciato che l’establishment legato a Bouteflika (militari, poteri economici, intelligence, il cosiddetto deep state, stato profondo) raggiungesse il punto di totale delegittimazione agli occhi della popolazione, in modo da poterne strumentalizzare la richiesta di democrazia per lanciarsi nuovamente alla conquista del potere e stabilire un regime fondamentalista in Algeria.
Bisognava solo attendere il momento giusto, arrivato con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali. La ricandidatura di Bouteflika per un quinto mandato, frutto dell’incapacità delle varie anime dell’establishment di concordare un candidato alternativo (sebbene il malato Bouteflika sia da diversi anni impossibilitato a svolgere pubblicamente le funzioni di presidente), è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza popolare, come ampiamente previsto. Da mesi, infatti, esponenti della Fratellanza Musulmana evocavano il “crollo delle istituzioni” e la “prospettiva di scendere in piazza”, poiché lo stato non è più capace di “garantire i… diritti” degli algerini.
La fase della rinuncia alle stragi terroristiche, in cambio della facoltà di svolgere attività di proselitismo e di non sfidare apertamente Bouteflika, è dunque terminata. E se la Fratellanza non riuscirà nel suo intento di stabilire un regime fondamentalista in Algeria, tornerà alle stragi terroristiche, come accaduto in Egitto. La dimensione regionale della crisi è poi ben messa in luce sempre da esponenti della Fratellanza Musulmana, con i loro attacchi al Quartetto arabo contro il terrorismo, diretti in particolare ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, effettuati per conto degli Stati che ne sponsorizzano l’agenda islamista: il Qatar degli emiri Al Thani e la Turchia di Erdogan, i mandanti di quella che fu la Primavera Araba.
L’Europa e l’Occidente hanno imparato la lezione?
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