Non c’è alcun respiro per Israele. Né sul ‘terreno’ geografico né su quello delle relazioni internazionali che, intrecciandosi e avviluppandosi l’uno all’altro in modo inestricabile, costringono lo Stato ebraico a una pressione bellica e diplomatica elevatissima, capace di determinare una sorta di ‘stato d’assedio permanente’ su governo e cittadini israeliani. Innanzitutto va preso in considerazione l’attuale doppio fronte d’impegno militare, nel meridione, in relazione alla Striscia di Gaza e, in particolare, alla zona di Rafah, e nel settentrione, in ordine al confine con il Libano. Nel primo scenario, Israele continua la sua operazione anti-Hamas con una serie di azioni chirurgiche e mirate, tese all’eliminazione di specifiche cellule terroristiche, abbattute, poi, in scontri diretti sul campo. A cui si aggiungono altre sortite ‘intelligenti artificiali’ dell’aviazione ebraica, che ha dichiarato di aver distrutto, tra gli altri obiettivi, strutture militari avversarie attive. Nel secondo scenario, le Idf si trovano dinanzi a una corposa rappresaglia del gruppo terroristico di Hezbollah, che mercoledì 12 giugno 2024 con i suoi oltre duecento razzi ha risposto, così, all’uccisione di uno dei suoi più anziani comandanti, Taleb Abdallah, più noto come Abu Taleb, in tal modo esasperando una situazione di attrito con Israele non solo ormai ordinarizzata nel corso del tempo, ma, specialmente nella fase corrente della guerra israelo-palestinese, scientemente orchestrata e strutturalmente integrata in quest’ultima. Così che possa presentarsi agli occhi di Israele e del mondo islamico-islamistico, oltre che di quello islamo-goscista pro-palestinese/pro-Hamas occidentale, un connubio perfetto tra Hezbollah e Hamas, ovvero tra due apparati indebitamente concepiti come terroristici, e che, al contrario, vogliono essere percepiti come modalità organizzate di resistenza anti-ebraica, degne, per questo, di essere sostenute ‘eticamente’ da una solidarietà internazionale obliqua, che, infatti, non manca certo loro.
Il presente fronte libanese – che si riapre dopo l’eliminazione, a gennaio 2024, dell’altro comandante di Hezbollah, Wissam al-Tawil, il numero due, in ordine gerarchico, delle Forze Radwan di Hezbolllah, e, ad aprile 2024, del ‘comandante di brigata’ di queste, Ali Ahmed Hassin, e di altri suoi sottoposti, in un attacco nella zona di Sultaniyeh, tutti, questi, para-militari che avevano lo specifico compito di organizzare costantemente attacchi terroristici anti-israeliani nel nord dello Stato ebraico –, costituisce, nella lettura che ne forniscono principalmente le autorità americane, una vera e propria trappola per Tel Aviv. O, addirittura, con le parole del ministro degli Esteri iraniano Ali Bakri Keni, un ‘pozzo’ nel quale sarebbe opportuno che Israele non andasse a infilarsi, pena l’intervento delle forze militari del Paese sciita per impedire l’eventuale incursione militare israeliana, il raggiungimento di sottesi obiettivi geopolitico-strategici ebraici anche in quell’area e, principalmente, l’offerta all’Iran di buone ragioni intervenire a sostegno contestualmente di Hezbollah e di Hamas, entrambi ampiamente foraggiati dalla repubblica islamica. Tutto questo proprio mentre il segretario di Stato americano Antony Blinken è in tour nel Medioriente a caccia di brandelli di aperture di pace da parte di capi di Stato e ministri degli esteri dei Paesi visitati, a fronte, però, della presa d’atto che Hamas stia provando a ritardare in tutti i modi l’accordo per un cessate il fuoco, dopo che il testo, con le sue fasi ben scandite, e, in pratica, confezionato su proposte elaborate dallo stesso gruppo terroristico palestinese già il 6 maggio 2024, dopo essere stato approvato e riarticolato in modo ufficiale dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, era stato sottoposto e accettato, pur con alcuni appunti e indigestioni, da Israele. Per Blinken, dunque, ora è Hamas a continuare a volere la guerra, come dimostrato dall’ambiguità del suo atteggiamento, ovvero dall’uso di un triplo registro comunicativo. Uno, grazie al quale trasmette l’immagine di un Hamas del tutto pronto, in ogni sua componente, politica e militare, a trovare una via d’intesa con Israele, tanto da impiegare l’immagine del primo ministro qatarino, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, quale garanzia di autenticità durante la divulgazione delle notizie relative alla propria volontà di superare tutti gli ostacoli nell’individuazione di una linea risolutiva con Israele. Di contro, quindi, alla posizione di Tel Aviv, che starebbe tentennando, pur di non porre termine al massacro di civili indifesi e anche di consentire a Netanyahu la possibilità di proseguire il suo cammino di governo, che evidentemente si interromperebbe con la fine stessa delle ostilità, e ciò sempre in nome di un fallace e inconcludente guerra al terrorismo. L’altro registro riguarda la presentazione da parte di Hamas di un’intelligence israeliana concentrata sulla diffusione sistematica e metodica di false notizie sulla tendenza della compagine ostile a impedire la conclusione di transitori o definitivi accordi di pace. In questo senso, dunque, secondo Hamas si dovrebbero intendere le affermazioni pubbliche delle autorità e dei media israeliani circa l’intenzione del ‘gruppo resistente’ palestinese di modificare in modo sostanziale – elidendone alcuni e/o aggiungendone di altri precedentemente non presenti e, quindi, vagliati da parte ebraica – i contenuti della ‘bozza pattizia’ accolta dall’Onu e da Israele, obbligando, così, il cessate il fuoco a ritardare il suo ingresso in scena di altre due settimane. In sintesi, dunque, Hamas starebbe asserendo tanto che Israele sia propenso a realizzare l’ultimativa eliminazione etnica del popolo palestinese e, per questo, a lasciare in piedi il pur detestato governo Netanyahu, quanto che lo Stato ebraico stia potentemente manipolando, grazie alla sua tentacolare macchina mediatica globale, le informazioni relative al conflitto in atto con i palestinesi, costruendo l’immagine falsata del mancato raggiungimento di una pace mediata in ragione della ‘follia’ suicida (=omicida nei confronti del popolo stesso palestinese) di Hamas. Ma come poter credere e immaginare che quest’ultima non sia tale, quando proprio il capo di Hamas, Yahya Sinwar, in alcuni messaggi inviati ai mediatori del Qatar e dell’Egitto e riproposti dal Wall Street Journal, dichiara praticamente di considerare i singoli componenti del popolo palestinese come ‘sacrifici necessari’ alla causa, strumenti per il raggiungimento dell’onore e della gloria della nazione palestinese e mezzi per ottenere la giusta pressione (emotivo-)internazionale su Israele affinché accetti un cessate il fuoco permanente e l’idea di dover trattare le condizioni di quest’ultimo proprio con chi gli avrebbe massacrato civili indifesi in un giorno qualsiasi dell’ottobre 2023, senza nessuna ragione e con una spietatezza inesprimibile? Il terzo registro comunicativo di Hamas, infine, è bilanciato sulla disseminazione, soprattutto a uso interno – ma anche esterno, in termini di ‘approccio resistentivo’ –, della rappresentazione di sé come difensore, sino all’ultima goccia di sangue disponibile dei suoi combattenti, del popolo palestinese, e, di conseguenza, disponibile, laddove le circostanze lo richiedessero – ovvero, nella narrazione hamasiana, nel caso Israele volesse continuare il conflitto – a impegnarsi in una guerra a oltranza, senza il risparmio di alcuna forza e nella prospettiva di una vittoria definitiva contro l’oppressore ebreo.
Sul fronte internazionale il pressing su Israele, incredibilmente maggiore rispetto a quello esercitato su Hamas e affiliati di ogni ‘parrocchia islamica’, araba o meno che sia, è stato operato innanzitutto grazie all’equiparazione delle azioni militari israeliane – responsive rispetto al deliberato e ingiustificato attacco di Hamas nemmeno a postazioni militari o a combattenti ebrei, ma a civili inermi – alle brutalità commesse dai militanti del gruppo terroristico palestinese. In questa direzione vanno interpretate le relazioni dei membri del gruppo di osservatori guidati da Navi Pillay, già magistrata sudafricana ed ex alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, che individuano nelle azioni reciproche dei combattenti terroristi musulmani di Hamas e dei militari regolari israeliani il medesimo tenore comportamentale delittuoso di crimini di guerra e contro l’umanità. Per tale gruppo di analisti ‘neutrali’, da una parte, i palestinesi di Hamas hanno commesso omicidi, rapimenti, torture e violenze sessuali nei confronti degli israeliani, ‘allo stesso modo’ in cui, dall’altra, i militari israeliani hanno reagito con omicidio, sterminio e addirittura persecuzione di genere, corredati anche da un uso bellico-strategico e funzionale dell’affamamento della popolazione di Gaza attraverso un suo completo accerchiamento e isolamento. Una posizione, questa, che in pratica ribadisce l’accusa di crimini contro l’umanità lanciata nel maggio 2024 da Karim Kahn, procuratore della Corte penale internazionale (Cpi,) nei confronti tanto degli israeliani Benjamin Netanyhau e Aluf Yoav Gallant, colpevoli di aver sfruttato la loro posizione di governo per ridurre in una condizione disastrosa la popolazione civile in Israele e a Gaza, quanto di tre personalità di Hamas, ovvero Ismail Haniyeh, direttore dell’ufficio politico di Hamas, Yahya Sinwar, capo della sezione di Gaza del movimento terroristico palestinese, e Mohammed Deif, uno dei leader delle Brigate ‘Al Qassam’, sezione militare di Hamas. Detto in altro modo, così come nelle previsioni del primo ministro ebreo, un’accusa di tale genere, con l’eventualità dello spiccamento del relativo mandato internazionale di arresto, anche e soprattutto per gli esponenti del governo di Israele, non poteva che trasformarsi, più che in uno stratagemma giuridico-internazionale per perseguire l’obiettivo dello stop all’uso delle armi su entrambi i fronti, in un autentico mezzo politico per impedire allo Stato ebraico sia di difendersi legittimamente sia di provare con tutte le forze disponibili a eradicare Hamas da Gaza e dagli altri territori palestinesi, in modo da dare un segnale, forte e chiaro, anche agli altri gruppi terroristici affiliati, in Libano, in Iran e nello Yemen. E per quanto Kahn abbia stigmatizzato in modo perentorio gli atti di omicidio e di sterminio perpetrati da Hamas nei confronti dei civili ebrei, oltre che di rapimento e stupro in fase di prigionia degli ostaggi, la sua posizione rispetto a Isreale non ha fatto altro che convalidare, agli occhi della comunità internazionale, la equiparabilità e l’indistinguibilità della posizione israeliana rispetto a quella terroristica palestinese, se non proprio il superamento da parte dello Stato ebraico degli stessi confini di violenza e barbarie segnati da Hamas nell’attacco del 7 ottobre 2023, in considerazione dell’uso massiccio da parte delle forze armate israeliane di bombardamenti a tappeto, piuttosto che di azioni mirate, che hanno letteralmente cancellato una fetta importante della popolazione palestinese, già sottoposta, in ragione del conflitto in corso, a spostamenti forzati e a concentrarsi, per di più, in ‘aree sicure’, rivelatesi, poi, agevolatori di massacri. L’impiego, poi, per Hamas del termine ‘sterminio’ per definire il complesso degli atti indegni commessi contro i civili israeliani, e del superiore, più grave e assoluto ‘genocidio’ per la risposta armata di Israele – come se lo Stato ebraico non solo stesse intenzionalmente annientando il popolo palestinese, ma lo stesse facendo in assenza completa di una controparte armata, e come se fosse del tutto ininfluente lo sfruttamento da parte di Hamas della popolazione civile palestinese come parte integrante e sacrificabile del proprio sistema articolato di difesa – significa non poco. Vuol dire, sommamente, che Israele sia riconosciuto come uno Stato razziale e non democratico, volontariamente proteso alla realizzazione e perfezionamento di un piano preordinato etno-cidario, che affonda le sue radici non certo in un recente passato – ovvero nella pregressa offensiva di Hamas del 7 ottobre –, ma in quello della sua stessa fondazione come Stato, che, a detta dei detrattori, esterni e interni di quest’ultimo, avrebbe sempre previsto, in associazione alla costituzione della legittima territorialità israeliana, lo ‘spianamento etnico’ del popolo palestinese, ovvero la sua completa cancellazione dall’area ‘storicamente’ destinata al popolo di Israele. E non è un caso che lo stesso segretario generale dell’Onu, António Guterres, in linea con i pronunciamenti in senso genocidario della Corte internazionale di giustizia (Cig) nei confronti dello Stato di Israele, e con l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità della Cpi rivolta ai suoi massimi esponenti politici, rinsaldi, dopo averla in pratica fondata (sovranazionalmente) assieme alle suddette relazioni degli esperti dell’Onu coordinati da Pillay, una posizione dichiaratamente contraria a Israele, sotto le due specie collettivo-nazionale e politico-individuale.
Ma non è finita qui. In effetti anche dall’interno Israele sta patendo notevolmente la spinta avversa sia dal punto di vista politico, addirittura da un fuoco parzialmente amico – o mai stato amico, se non temporaneamente per ragioni di ‘opportunità emergenziale’ –, sia dal punto di vista economico, da parte di qualche consolidata azienda del settore tecnologico, tradizionale investitrice nello Stato ebraico. Il primo problema è sicuramente costituito dall’uscita dal gabinetto di guerra, istituito da Netanyahu all’indomani dei massacri del 7 ottobre, dell’ex ministro della difesa e del già Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, insieme all’altro centrista Gadi Eisenkot. Per quanto sia vero che, nonostante costoro vadano a sedersi nuovamente sui banchi dell’opposizione, il governo a guida Bibi non subisca, di fatto, un grande contraccolpo, potendo contare, se non più sul 60% dell’alleanza che regge Netanyahu, almeno sul 53% di essa, è altrettanto indiscutibile che un’operazione del genere, finalizzata soprattutto allo sgretolamento del governo di unità nazionale post-pogrom e all’istaurazione di un clima pre-elettorale orientato all’eliminazione del premier in carica, è capace di destabilizzare in un altro modo la maggioranza attuale. Infatti, l’emorragia politica in corso ha esposto automaticamente Netanyahu tanto alle ‘legittime’ richieste di sostituzione dei due esponenti politici dimissionari da parte di due altri protagonisti della scena politica israeliana, quali Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, quanto alle durissime critiche preventive di una solida maggioranza della popolazione e di gran parte dell’opinione pubblica internazionale rispetto all’ipotesi dell’ingresso di tali figure dell’ultra-destra nazionalista israeliana, le quali non avrebbero fatto altro che rendere ancora più incandescente la temperatura bellico-militare nell’area, quando le cancellerie di Stato mondiali propendono, al contrario, per un processo di progressiva distensione nell’area. Per questo, non senza ulteriori difficoltà, e, agli occhi dei più, imprimendo al governo un corso addirittura maggiormente decisionistico e autoritario, Netanyahu ha decretato lo scioglimento del gabinetto di guerra, così da inibire sul nascere ulteriori appetiti politici dei due esponenti destrorsi e/o di altri con le medesime intenzioni, e attribuendo a una circoscritta schiera di persone ‘più moderate’, come Yoav Gallant e Ron Dermer, la possibilità di aiutarlo nelle determinazioni più complesse e controverse, quali, appunto, la decisione di continuare le operazioni belliche su Rafah e Gaza, al fine di smantellare nell’arco previsto di due mesi, gli ultimi battaglioni di Hamas che resistono all’avanzata delle forze armate israeliane. A tutto ciò si aggiungano altre due questioni, di non minore spessore e portata, in quanto concernono proprio l’esercito ebraico. Da un lato, infatti, il comandante della Divisione di Gaza delle Idf, generale di brigata Avi Rosenfeld, ha rassegnato le sue dimissioni in ragione della sua incapacità di prevedere e affrontare debitamente l’attacco del 7 ottobre, lasciando la comunità israeliana in balìa della violenza irrefrenabile del nemico hamasiano palestinese. Dall’altro, l’annuncio, evidentemente non concordato e condiviso con il premier Netanyahu, e per di più male articolato dal punto di vista comunicazionale, da parte delle autorità delle Idf di voler procedere a una ‘tregua tattica’, soprattutto per poter consentire l’approvvigionamento di aiuti umanitari nella striscia di Gaza, in ossequio alle indicazioni vincolanti provenienti dalle istituzioni giudiziare sovranazionali e alle norme del diritto internazionale. Una disposizione, questa, che, proprio perché assunta con il solo, pur legittimamente sufficiente, placet del ministro della Difesa, ha inasprito il primo ministro israeliano sia perché quest’ultimo è stato estromesso da una linea decisionale così importante e fondamentale sia perché tale scelta ha mostrato, internamente ed esternamente, un vulnus pericolosissimo all’interno del processo di elaborazione e di attuazione delle politiche militari, apparentemente sempre più autonomo ed emancipato dagli orientamenti decisionali del primo ministro. Ritornando, solo per un momento, alla questione Gantz, che ha aperto, in pratica, quella che si potrebbe definire una ‘non-crisi critica’, cui si stanno allacciando a catena tante altre questioni politiche e militari interne giudicabili come ancora in sospeso e in attesa di risoluzione, v’è da considerare la nitidezza della politicità dell’operazione di fuoriuscita dal governo d’emergenza e dal gabinetto di guerra da parte dei due esponenti del moderatismo israeliano. Nel senso che, se ben si guarda, le condizioni alle quali secondo Gantz Netanyahu non si sarebbe ‘piegato’ in fondo si identificano proprio con gli obiettivi che il primo ministro israeliano starebbe perseguendo. Come si farebbe, infatti, a sostenere che i punti all’ordine del giorno posti da Gantz a Netanyahu quali condizioni della permanenza del primo nel gabinetto di guerra – quali, per esempio, e solo per citarne alcuni, la costruzione di un piano di liberazione degli ostaggi, il rientro nelle proprie case di una moltitudine di israeliani costretti a lasciarle per la guerra a nord e a sud di Israele, la completa eradicazione di Hamas, l’elaborazione di un piano politico-governativo per il post-Gaza, senza Hamas e senza l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, ma con il coinvolgimento di attori internazionali come gli americani, gli arabi sauditi e gli stessi palestinesi ‘moderati’ – non coincidano perfettamente con i desiderata politici del premier israeliano? È chiaro che, sulla scorta di un’atmosfera connotata da una ponderosa attività di critica internazionale e nazionale mossa a quest’ultimo, Gantz e compagni siano riusciti ad applicare e a rendere efficace su e in opposizione a Netanyahu uno schema politico-narrativo interessante per quanto azzardato, ovvero sono stati capaci di trasformare in argomenti contro il leader israeliano del Likud e capo del governo israeliano propositi e obiettivi non solo già sempre considerati da quest’ultimo il sale della sua politica emergenziale anti-hamasiana e condivisi maggioritariamente dalla base del suo elettorato, ma addirittura giudicati come fondanti proprio l’intesa con la parte moderata, che, come detto, su quelli ha giocato la propria nuova distanza dalla compagine di unità nazionale e dal gabinetto di guerra, avvicinando, così, in modo sempre più repentino, il momento della verità del confronto con l’elettorato israeliano, ovvero, il giorno del giudizio su Bibi. Per questo la manovra di Gantz è in odore non tanto di tradimento dell’unità popolare-politica israeliana quanto di razionalissima, scaltra e astuta, cattura del momento più giusto, opportuno, ‘kairotico’, per procedere all’eliminazione del suo avversario conservatore, per di più, secondo Gantz stesso, per la maggior parte degli Stati occidentali e non solo, già delegittimato dalla sua stessa condotta politico-militare e dalla sua colpevole indifferenza ai richiami dei più stretti alleati a moderare l’uso della forza. Ma Gantz, pur nella sua lucida consapevolezza e nella sua utilitaristica dinamicità politica, non tiene, forse, nel giusto conto che, se Bibi ancora può operare in un certo modo ‘libero’ rispetto ai palestinesi, e al di là di qualsiasi pronunciamento di qualsivoglia corte di giustizia o penale internazionale, questo dipende dal supporto politico, finanziario e militare, proprio di quei Paesi che il centrista israeliano ritiene ormai schierati definitivamente contro Netanyahu e pronti, a suo parere, a estrometterlo dalla scena politica nazionale e internazionale subito dopo la fine delle ostilità, anche, eventualmente, quella temporanea che viene auspicata e indicata come ‘pausa militare tattica’ o, laddove si addivenga a un’intesa mediata tra Israele e Hamas, quella tracciata nel cosiddetto Piano-Biden. Insomma, Gantz potrebbe non aver fatto bene i conti né con la ‘resistenza’ a declinare e sfiorire ‘naturalmente’ dell’elettorato conservatore israeliano, che potrebbe addirittura riconfermare, dopo la fine del conflitto o anche in corrispondenza di un’anticipazione forzata del momento elettorale, il premier nella sua attuale posizione di governo, né con gli ammiccamenti dissimulati delle grandi potenze occidentali e non nei confronti dello Stato ebraico, che, insieme agli Emirati Arabi Uniti, solidalmente con gli altri Paesi sottoscrittori degli Accordi di Abramo, e con l’Arabia Saudita e altri attori del quadrante mediorientale che vorranno seguire le orme ‘dialogiche’ di Mohammed bin Salman, vedono in Israele quella potenza militare che, per procura lontana o vicina, può garantire l’arginamento di forze ostili tanto all’Occidente anglo-europeo quanto al Medio Oriente arabo e musulmano.
Dal punto di vista strettamente economico interno, Israele, infine, trema per la scelta della multinazionale statunitense Intel – azienda di primo piano nel panorama dell’hi-tech mondiale e stretta collaboratrice dello Stato ebraico in termini di generazione di lavoro e di fornimento di tutti le apparecchiature tecnologiche che hanno consentito agli israeliani di mantenersi al passo con altri Stati tecno-avanzati e anche, quasi certamente, di implementare i propri sistemi ‘intelligenti’ d’arma – di bloccare il progetto di costruzione di un impianto di produzione di microprocessori nell’area di Kyriat Gat. L’investimento complessivo di 25 miliardi di dollari – 10 già promessi nel 2019 e altri 15 prossimi a essere stanziati secondo accordi pregressamente stabiliti, il tutto all’interno di una cornice di sviluppo delle intese economiche di interesse ‘circolare’ con lo Stato di Israele, contributore anch’esso, con 3,5 miliardi, del macro-progetto della Intel – è stato, infatti, bloccato per ragioni palesemente indeterminate, se si considera la vaghezza con cui in merito si è espresso il portavoce della Intel. Il quale, per l’appunto, annunciando ai fornitori la risoluzione dei contratti in ordine all’edificazione del suddetto impianto, oltre a non specificare per nulla i motivi di tale decisione, semmai rimarcando che questi fossero riferibili a politiche interne di gestione del capitale aziendale, addirittura ribadiva, in maniera del tutto contraddittoria, l’alleanza economico-investitiva con un partner consolidato come Israele. Eppure, tra le righe del discorso della figura apicale dell’Intel è rinvenibile, per un verso, la preoccupazione per un investimento voluminoso all’interno di un’area geografico-politica oltremodo instabile, prossima, addirittura, a vedere crescere, piuttosto che diminuire, le ragioni e le situazioni di conflittualità armata, per un altro, l’allineamento di tale azienda a una prassi di disincentivazione a collaborazioni particolarmente onerose con soggetti statuali (e anche privati) caduti miseramente in pericolosi fondali reputazionali internazionali, come, nel caso di specie, Israele, sempre più pubblicamente marchiato come aggressore eccedente, per quanto legittimamente autorizzato dall’attacco di Hamas alla sua propria difesa esistenziale, nei confronti dell’innocente popolazione palestinese. In pratica, Intel starebbe aderendo a una sorta di affermata pratica di ‘boicottaggio’ (in tal caso elegante e senza manifestazioni oppositive critiche e/o violente), trasversalmente coinvolgente una serie di attori, di grandi e piccole dimensioni, pubblici e privati, intenti a dimostrare – con le proprie azioni di dismissione delle relazioni con uno Stato brutale e rabbioso, come Israele starebbe attestando, al di là di ogni dubbio o giustificazione, di essere, almeno nella loro visione e interpretazione della risposta ebraica alle violenze del palestinese Hamas – di non avere intenzione, per colpa di Israele, di compromettere e macchiare la propria statura etica e il proprio purpose morale aziendale, in linea con il sentimento generale del bacino dei propri clienti indirizzato, orientato benevomente e simpateticamente nei confronti delle vittime palestinesi. Una specie di ‘wokismo’ d’impresa, politicamente centrato, che, mentre, da un lato, concorre all’isolamento, anche sul fronte economico, di Israele, dall’altro, in nome di valori morali universali che lo Stato ebraico starebbe troppo evidentemente violando e trasgredendo, contribuisce, per la via morale generale, e dunque, auto-legittimante e già sempre gonfia di sé, oltre che mai in debito di auto-critica, ad avvalorare ancor di più, quasi ve ne fosse ancora bisogno, l’ostilità nei confronti degli ebrei e del loro Stato. Traducibile in un antisemitismo non certo vittimario/vittimistico, di maniera, utilitaristico e auto-apologetico, con il quale qualcuno pensa che Israele vorrebbe prendere congedo da proprie responsabilità nella conduzione della guerra ad Hamas oppure schermarsi indebitamente e scompostamente dalle pesantissime accuse di violazione dei diritti umani in capo alla popolazione palestinese, ma del tutto ‘reale’, che, attraverso la critica e la demonizzazione della necessaria lotta radicale contro il terrorismo più bieco da parte di Israele, in pratica condanna in modo continuativo e immutabile gli ebrei a costringersi a evitare di combattere per la propria esistenza e a digerire, per forza e senza termine alcuno, qualsiasi azione metta in pericolo la vita dei propri cittadini. Oggi non solo ebrei, ma anche, e soprattutto, israeliani, ovvero membri di una comunità territoriale sovrana, che, al pari di qualsiasi altra fosse stata attaccata nel modo in cui lo è stata quella di Israele, non avrebbe potuto e dovuto esitare, come in effetti non ha esitato un solo minuto a reagire e a far rispettare quella dignità statuale che ha ottenuto dopo secoli di subalternazione e malversazioni. Condizioni che, forse, alcuni Stati o alcuni soggetti politici altri avrebbero voluto caratterizzassero in maniera onto-statutaria e permanente l’identità ebraica. Ma che, pur a loro spiacendo, non sussistono più.