Medio Oriente: una tregua che evidenzia le doti di strategia di Netanyahu.
L’accordo di tregua tra opposte fazioni raggiunto in Medio Oriente con un “cessate il fuoco” in vigore dalla mattinata di ieri, non è scevro da una più ampia riflessione sulle condizioni e, soprattutto, sulle strategie di Israele, che hanno consentito il raggiungimento di una pausa dei combattimenti.
Ben conscio della situazione in positiva evoluzione sui vari teatri bellici che vedono impegnate le Forze di difesa israeliane (Idf) il Premier Netanyahu e lo Stato maggiore delle Forze di difesa israeliane di Gerusalemme, hanno inteso proporre una “semplice” pianificazione del ritiro dei terroristi di Hezbollah oltre le sponde del fiume Litani, in concomitanza con lo schieramento delle truppe dell’esercito regolare libanese e di quelle del contingente Unifil in qualità di supervisori del rispetto dell’accordo ma con potenzialità di intervento nei confronti dei contravventori al medesimo.
Nella fattispecie, il ritiro di Hezbollah verso il nord del Libano, include alcuni fattori essenziali per la tutela di Israele. In primis, l’allontanamento di uomini e, soprattutto, di armamenti dalla “zona a rischio”, che presuppone un raggio di gittata dei vettori in dotazione ai miliziani, non più utile a colpire il territorio dello Stato ebraico.
Il secondo punto, essenziale, riconduce al taglio delle vie di approvvigionamento che, attraversando in parte il territorio siriano conducevano alle prime linee di Hezbollah sul versante libanese del Golan. Il bombardamento preventivo dell’IAF condotto su due arterie vitali idonee ai trasporti, ha inibito di fatto l’utilizzo delle stesse, riducendo il potenziale offensivo dell’organizzazione terroristica. Al momento, infatti, rimane un’unica via terrestre che connette la Siria verso la città di Anjar, in territorio libanese, ma la strada non è totalmente sotto il controllo diretto di Hezbollah, essendo una via di comunicazione essenziale anche per gli scambi commerciali tra Damasco e Beirut e, oltretutto, con infiltrazioni di altre fazioni impegnate in funzione anti-siriana, quindi, scevre da implicazioni nel conflitto tra Israele ed Hezbollah.
Inoltre, l’IAF, negli ultimi giorni, ha condotto operazioni di bombardamento mirato lungo il confine tra Siria e Libano, distruggendo tutti i rimanenti valichi di frontiera attivi tra i due paesi, valichi per lo più pedonabili o sterrati che mal si prestano ad un attraversamento di automezzi carichi di munizioni o vettori pesanti.
Sebbene tutti i presupposti ipotizzati e realizzati dall’Establishment di Gerusalemme si siano attuati, anche oggi sono stati segnalati movimenti di miliziani di Hezbollah in direzione del confine sud del Libano. Spostamenti monitorati dall’Idf che potrebbero preludere a nuovi attacchi, pur se in tono ed entità minori, contro il territorio nel nord di Israele. Queste iniziative non precluderebbero, però, il diritto per Gerusalemme di attuare strategie di contenimento e di autodifesa preventiva, come, peraltro, stabilito dagli accordi pattuiti.
Di conseguenza assistiamo ad un deciso ridimensionamento delle capacità offensive dei terroristi sciiti in Libano, accompagnato da un più deciso atteggiamento inibitorio da parte del governo di Beirut che, per voce del Presidente del Parlamento libanese Nabih Berri, ha reso pubblica l’indizione di una sessione elettorale prevista per il 9 gennaio p.v. per la nomina di un nuovo presidente del Libano.
Tutto ciò potrebbe preludere ad una decisa sterzata nei confronti di Hezbollah, anche tenendo in debito conto che nelle ultime settimane si sono susseguiti episodi di rivolta popolare proprio contro i miliziani sciiti da parte della popolazione civile, non più disposta ad assistere come vittima inerme alla sistematica distruzione del Paese dei cedri.
In concomitanza con l’evolversi della situazione in Libano, anche nella Striscia di Gaza si rincorrono voci secondo le quali anche Hamas sarebbe pronto ad accettare una tregua, sebbene questi sia stato indotto a più miti consigli anche considerando che l’apparato bellico a sua disposizione è stato pressoché annullato dalle forze israeliane. Ed anche qui, proprio a Gaza e Khan Younis, sui principali social network sono comparsi video riproducenti sia il malcontento della popolazione ed il diffuso odio verso chi ha indotto un’intera popolazione alla fame ed al nomadismo, sia anche di violente aggressioni contro i sostenitori di Hamas, nel pieno convincimento che gli stessi potrebbero tornare ad imporre l’utilizzo di abitazioni private o pubblici edifici come depositi per armi o per l’installazione di rampe idonee ai lanci di razzi contro Israele, con le debite conseguenze. Ma anche in questo caso, Hamas soffre da tempo di carenza di approvvigionamenti e, alla bisogna, può ricorrere, seppur limitatamente, al solo traffico marittimo di vettori il cui contenuto è reso disponibile dalla rete di fiancheggiatori dell’organizzazione ben presente ed operante anche e, soprattutto, in Europa.
In definitiva, eliminati i proxies iraniani, considerando fuori gioco anche gli Houthi yemeniti monitorati costantemente dalla marina militare di USA e UK, l’ultimo baluardo prossimo alla neutralizzazione rimane l’Iran. Un obiettivo non semplice anche in considerazione delle implicazioni geopolitiche che deriverebbero da un attacco frontale di Israele.
Nel contesto si ripropone, però, la capacità dello Stato ebraico di condurre operazioni su vasta scala di quella che in termini militari viene definita una “guerra non ortodossa”, ossia, un conflitto basato su una strategia di eliminazione sistematica di obiettivi e soggetti “sensibili” e specifici, idonea a ridurre significativamente il potenziale bellico di Teheran. Una strategia che coinvolge nelle sue tattiche, anche i dissidenti del regime e le componenti anti-regime stanziate in Iran, come gli azeri, i curdi, i turkmeni che non hanno mai nascosto la loro volontà collaborativa con Israele.
Inoltre, e non a caso, negli ultimi mesi si sono susseguite le dichiarazioni di Reza Pahlevi, figlio di Mohammad Reza Pahlevi, lo Shāh di Persia esautorato dalle sue funzioni con l’avvento del regime khomeinista nel 1979 e costretto all’esilio in Egitto. Proprio il legittimo erede dello Shāh, Reza Pahlavi, che lo scorso anno ha visitato Israele, ha dichiarato più volte di essere pronto a guidare l’Iran dopo l’eventuale caduta della Repubblica islamica, ma solo a condizione di una nomina sancita da un libero referendum popolare.