Con l’avvento di Biden, Teheran torna a mostrare i muscoli e in prossimità dell’insediamento della nuova amministrazione Usa, che il nuovo establishment non esclude una decisa svolta rispetto alla “gestione Trump” in materia di politica estera.
Sono infatti numerosi i segnali di un cambio di direzione captati, a partire dagli staff di James Sullivan ad Anthony Blinken, rispettivamente consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato entranti, sino allo stesso Biden, dai quali sono trapelate indiscrezioni circa il ritorno alle trattative sul nucleare con Teheran e ad un deciso ammorbidimento delle sanzioni contro il regime degli ayatollah.
Questo deciso allentamento della pressione politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran è stato percepito da Teheran come una sorta di “semaforo verde”, del quale approfittare per attuare la più volte evocata “vendetta” per gli omicidi mirati condotti nel 2020 di scienziati nucleari di Teheran e dei continui raid aviatori contro le basi dei miliziani filo-iraniani in territorio siriano condotti da Israele.
Da parte americana un autogol clamoroso che pone in serio pericolo lo Stato ebraico, a fronte delle minacce da più fronti che, se attuate, porterebbero a una decisa destabilizzazione del Medio Oriente con un conflitto su larga scala. Di fatto, Israele si prepara a respingere un possibile attacco condotto mediante missili, artiglieria e droni da parte delle organizzazioni terroristiche sciite che operano sotto la guida degli iraniani, presenti in tutti i fronti: Siria e Libano a nord, Iraq a est e Yemen a sud.
Un panorama inquietante che Israele teme di affrontare visto il quasi isolamento totale, dando per assodato un progressivo disimpegno americano dal teatro mediorientale e della crescita esponenziale delle minacce alle quali fare fronte in assenza di alleati “credibili”.
I timori di una ritorsione iraniana sono infatti cresciuti dopo le celebrazioni legate al primo anniversario dell’eliminazione di Qassem Soleimani, neutralizzato in un raid condotto da un drone statunitense in Iraq nel gennaio scorso su segnalazione del Mossad, e dopo le dichiarazioni della Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, che ha evidenziato come il potenziale offensivo iraniano non potrà che crescere con l’ammorbidimento delle sanzioni successivo all’insediamento di Biden alla Casa Bianca.
La rabbia è cresciuta a Teheran, e per lungo tempo si è accompagnata ad un senso di impotenza a fronte delle continue scorribande sul territorio iraniano di “forze ostili”, in ultimo, quella che ha portato all’eliminazione dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh nel mese di novembre e, successivamente, ai ripetuti raid dell’Aviazione israeliana, l’ultimo lanciato martedì sera in territorio siriano, diretti a neutralizzare i centri di comando e le rampe di lancio missilistiche dei Pasdaran.
In forza di un rinnovato ottimismo derivante dalla scomparsa dalla scena politica di Donald Trump, fautore degli Accordi di Abramo che hanno di fatto appianato numerose criticità nei rapporti tra i Paesi arabi e Israele,Teheran ha inteso lanciare una serie di esercitazioni militari su vasta scala, denominate “Great Prophet 15“, che hanno svelato la capacità offensiva delle forze armate del Regime, con la comparsa di missili a lungo raggio e le rivelazioni circa le basi sotterranee”segrete” sulle sponde del Golfo Persico progettate per il controllo dello Stretto di Hormuz e dell’antistante penisola omanita.
Secondo la Tasnim News Agency, durante le esercitazioni svoltesi sabato scorso i Pasdaran hanno lanciato missili balistici a lungo raggio che hanno colpito obiettivi a oltre 1.000 miglia di distanza. I missili terra-terra, lanciati dalle rampe stanziate nel deserto iraniano centrale di Dasht-e Kavir, hanno colpito i loro obiettivi nell’Oceano Indiano a circa 1.800 chilometri (1.118 miglia).
Una volontà, quella iraniana, di mostrare i muscoli in previsione della svolta americana che consentirebbe a Teheran, in forza di un ammorbidimento del controllo sulla proliferazione nucleare e gli armamenti, di proseguire nella sua politica di un progressivo e minaccioso avvicinamento ai confini di Israele.