Bella ciao inno della resistenza Ucraina? Ascoltato il testo di Khrystyna Soloviy, speriamo di no, ma…
Giustificazionismo – “Stalin in fin dei conti non era comunista… direi più un fascista inconsapevole”. In tempi non sospetti, sui banchi universitari, chi scrive aveva avuto modo di sentire queste parole da un docente, convinto forse più delle sue idee che della realtà storica. Ieri Stalin, oggi Putin… il fascista. E non importa che i russi chiamino la WWII “Grande Guerra Patriottica”, che la celebrino il 9 maggio per sottolineare come il loro impegno sia stato superiore a quello degli Alleati. Non importano i 20 milioni di morti e i banner sul sito del governo russo che, fino a pochi anni fa, rievocavano la “guerra anti-fascista”. Le scappatoie ed i giustificazionismi appartengono ad ogni ambiente, da quello còlto ed accademico alla storia fatta sui social, in cui la verità è oscurata da facili interpretazioni, slogan e convinzioni monolitiche. Specie quando di mezzo c’è il consenso. Un marketing in guerra che vuole, oggi, la Russia paese “fascista”.
Marketing – Nell’era digitale, con il sapere a portata di un click, nessuno cerca. Forse troppa fatica, forse meglio allinearsi così da non essere sospettati di essere “salmoni”, di andare controcorrente. O, se preferite, di essere marchiati con la lettera scarlatta: la “R” di revisionista.
Guai dunque a chi sostiene che Bella ciao non sia il vero inno della Resistenza…
Una convinzione tale da renderla, nel tempo, addirittura internazionale. Bella ciao è infatti sbarcata dapprima fra i curdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) poi in Ucraina grazie ad una cantante folk, Khrystyna Soloviy. Ripetiamolo: cantante folk, non combattenti al fronte che forse hanno più priorità di sopravvivere ogni giorno che di dedicarsi alle cover. E siccome in Occidente la Russia è diventata fascista, ecco che il tam tam sui social è bastato a far passare l’idea che Bella ciao sia adesso l’inno degli Ucraini in lotta contro i “fascisti russi”.
Verità – Bella ciao nasce negli Anni ’50 ed è presentata prima al Festival dei due Mondi di Spoleto poi al Festival della Gioventù di Praga. Gioventù comunista, chiaramente, cioè di un paese – la Cecoslovacchia – all’epoca sottoposta ad un regime totalitario. La canzone fu scritta sulla base di melodie popolari cantate dalle mondine del Veneto (o dalmate secondo altre fonti), adattandole al tema della Guerra di Liberazione. Adattandola, infatti, visto che nessun partigiano l’avrebbe mai cantata.
Una storiografia non oggettiva ne ha poi trasformato la Resistenza in un fenomeno univoco e Bella ciao nel suo inno
In realtà, già nel 1943 il CLN (espressione dei partiti dei governi Badoglio e Bonomi) cercò di unire le tante anime di una Resistenza multi colore sotto un’unica bandiera, il Tricolore, sotto un unico giuramento quello al Re e con un unico inno, La Canzone del Piave, inno nazionale del Regno d’Italia (sud) dal 1943 al 1946. Regno a cui i Partigiani (e i partigiani) dovevano ubbidire.
In Ucraina – Non esiste dunque alcuna convergenza, storica, fra Resistenza, Brigantaggio, lotta palestinese, lotta dei curdi ed, ora, lotta degli Ucraini. A meno che non sia voluto! Né il fatto che qualcuno canti Bella ciao davanti ad una telecamera crea automaticamente legami ideali ed internazionali. La versione di Khrystyna Soloviy, peraltro, esprime tutto il nazionalismo ucraino e l’odio verso i russi:“Uccideremo i boia maledetti” con tanto di gesto del taglio della gola. Insomma, parole e riferimenti che non si trovano nel testo originale e che, in Italia, sono solitamente associati al nazionalismo ed al fascismo.
Marketing, come abbiamo detto prima, a spese dei morti ed a beneficio di un approccio emotivo agli eventi che sembra dominare l’opinione pubblica occidentale. Facile pontificare da un salotto o da un talk show, condividendo magari la canzone di Khrystyna e spendendo parole di elogio e di condanna per questa o quella parte. Da che mondo e mondo, chi sta sulla linea del fronte – soldato, partigiano, civile – ha una vita grama, fatta di sopravvivenza, sangue e paura. E quando la guerra finisce fame, distruzione e ricordi d’orrore segnano indelebilmente la quotidianità dei sopravvissuti fra le generale indifferenza del mondo cosiddetto libero…
Se davvero si vuol essere d’aiuto l’unica strada è impegnarsi per una svolta diplomatica, rapida ed incisiva. Impegno che spetta alla Comunità internazionale. Tutti gli altri possono impegnarsi a capire le ragioni del conflitto, non giocare a risiko in remoto o mortificando, con trovate ridicole, il dolore e la sofferenza di chi il conflitto lo vive ogni giorno.