“A Trumpian Peace Deal in Libya?” è il titolo di un recente articolo di Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs secondo cui la nuova amministrazione Usa può giocare un ruolo decisivo nel dare soluzione al rebus libico. Da una parte, spiegano, il generale Haftar, sostenuto da Russia ed Egitto, avendo già il controllo delle infrastrutture petrolifere, avrebbe poco interesse a scivolare verso una sanguinosa battaglia per Tripoli se ci fosse la possibilità di un negoziato. Dall’altra, le fazioni occidentali, quella di Misurata inclusa, sono più incentivate a negoziare ora, prima che la loro posizione si indebolisca ulteriormente. Haftar potrebbe infatti attaccare Misurata a breve e a quel punto l’egemonia di Mosca (e del Cairo) sulla Libia sarebbe difficilmente reversibile.
Che ruolo può giocare quindi la nuova amministrazione Usa? E cosa si aspettano da essa le fazioni libiche? Almeno “per le strade libiche”, secondo i due autori, il presidente Trump è “molto più popolare di quando sarebbe stata Hillary Clinton“. “Gli emissari dell’ex segretario di Stato sono associati con lo status quo e con la fazione di Misurata. Inoltre, poche aree al mondo sono state più trascurate della Libia durante il secondo mandato del presidente Obama. Gli Stati Uniti sono stati decisivi per i raid aerei che hanno cacciato l’Isis da Sirte, ma non hanno esercitato la loro leadership sugli aspetti politici ed economici della transizione. Quindi, le fazioni libiche sperano in una iniziativa della nuova amministrazione Usa per superare lo stallo e dare nuova vita alle trattative”, evitando così un’escalation del conflitto armato che non conviene a nessuna.
E’ nell’interesse di Washington affrontare il dossier libico quanto prima per evitare che gli sviluppi del conflitto possano minacciare gli interessi americani. I paesi vicini (Tunisia, Algeria ed Egitto) potrebbero venire contagiati dal conflitto con infiltrazioni di milizie jihadiste. E la Russia potrebbe giocare d’anticipo riconoscendo il generale Haftar e il Parlamento di Tobruk come governo legittimo della Libia. Un regime filo-russo in Libia significherebbe trovarsi, dopo l’Ucraina e la Siria, con un nuovo fronte di tensione con Mosca. Proprio perché il presidente Trump sembra intenzionato a lavorare ad “un ampio accordo geostrategico con la Russia, non c’è ragione di pensare che intenda regalarle un’ulteriore leva negoziale”.
Per gli autori, Washington ha ancora più di una carta in mano. Solo gli Stati Uniti infatti possono offrire “pieno accesso nell’economia globale (e al mercato petrolifero) e legittimità internazionale alle varie fazioni libiche”, nonché garantire aiuti per la ricostruzione. Da Russia ed Egitto riceverebbero invece solo “dipendenza e ulteriore marginalizzazione”. Quindi l’amministrazione Trump “dovrebbe riconoscere che nessuna fazione, tra cui il governo di al-Serraj, ha un diritto esclusivo di legittimità politica in Libia”. Il generale Haftar e le milizie di Misurata sono “i due blocchi più potenti”. Anche se Haftar si sta rafforzando e Misurata si sta indebolendo, è improbabile che il primo possa prevalere a breve e una separazione de facto del Paese è l’esito più probabile.
“Una soluzione negoziata di condivisione del potere” è preferibile, secondo i due analisti, rispetto a qualsiasi altro “pseudo-governo”, ma ciò “non può accadere finché Washington continua a sostenere l’impotente governo di al-Serraj come unico legittimo e ad escludere Haftar e le altre fazioni”. Gli autori suggericono quindi “il diretto coinvolgimento di Haftar e dei leader moderati di Misurata”, dato che in Libia “sono i leader delle milizie ad avere il potere vero, non i politici”. E che “l’Occidente contribuisca a mettere a punto una proposta di decentramento politico cosicché tutte le fazioni vedano l’attuale conflitto come un gioco a somma zero”. Meglio “devolvere” alle città la maggior parte dei poteri, così come gli introiti delle risorse naturali. Eventuali conflitti locali sono più gestibili di un unico conflitto nazionale o tre regionali e la governance locale è necessaria per la ripresa economica. A questo scopo, Trump dovrebbe nominare un suo “inviato presidenziale” che coordini le politiche delle agenzie federali, supervisioni il processo Onu e agisca da “primus inter pares” con gli alleati europei coinvolti in Libia (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito), delegando loro “ruoli complementari”.
Finora la “leadership confusa” dell’amministrazione Obama ha portato ad una politica “mal coordinata e incoerente”. Se gli Stati Uniti vogliono porre fine alla guerra civile in Libia, avvertono, devono abbandonare il concetto di “leading from behind” ed esercitare direttamente la loro leadership. “Trump, come sappiamo, è un pensatore non convenzionale – concludono i due analisti di Foreign Affairs – non vincolato ai modi di fare tipici della burocrazia. E la Libia ha bisogno di un approccio fresco e coraggioso. Fortunatamente per gli Stati Uniti, per motivi geopolitici, le principali fazioni libiche sono ansiose di lavorare con Trump. Ora è il momento per lui di dimostrare che è pronto a lavorare con loro”.
Dunque, nella partita a scacchi che sta per iniziare tra Washington e Mosca – e che si gioca tra l’Europa orientale, il Medio Oriente e l’Iran – la Libia occupa una parte non così trascurabile della scacchiera. E l’Italia deve cogliere al volo l’occasione (che potrebbe essere l’ultima) di un rinnovato impegno americano sul dossier libico per correggere l’attuale corso degli eventi la cui inerzia contrasta con i nostri interessi. “Con l’Italia faremo grandi cose”. “Abbiamo bisogno dell’esperienza che l’Italia possiede sulla Libia”, è quanto ha detto nei giorni scorsi il neo segretario di Stato Usa Rex Tillerson all’inviato del quotidiano “La Stampa” Paolo Mastrolilli. Un’apertura che fa ben sperare sull’intenzione degli Stati Uniti di andare nella direzione auspicata da Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs. Washington si aspetta dall’Italia anche un aiuto concreto nella “gestione del dialogo con Putin”. Al contrario di quanto si dice e si scrive, l’amministrazione Trump non sarebbe poi così disposta a cedere a Mosca sull’Ucraina…
Insomma, il governo italiano e le forze politiche che lo sostengono, con quel che abbiamo in gioco in Libia (e con la Russia), non possono permettersi un approccio meno che rispettoso e collaborativo nei confronti della presidenza Trump, che può rappresentare l’ultima nostra exit strategy dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati in Libia.
Oggi la Libia rappresenta per l’Italia il principale problema sia di politica estera che di politica interna. La crisi di migranti generata dal caos libico accresce l’insofferenza dei cittadini italiani per i comandamenti dell'”Accoglienza”, fattore non trascurabile alla base della crisi di consensi del Governo Renzi, e indebolisce la nostra posizione in Europa. Solo nelle ultime settimane: sedi ministeriali occupate a Tripoli, proprio nei giorni successivi la visita del ministro dell’interno Minniti; un’autobomba esplosa nei pressi dell’ambasciata italiana da poco riaperta; golpe veri o presunti o minacciati e continue dichiarazioni dal Parlamento di Tobruk contro “l’occupazione militare italiana”. Vendette dell’ex premier libico Ghwell, scalzato dal governo targato Onu di al-Serraj? Avvertimenti del generale Haftar (“con me dovete trattare”)? E’ comunque difficile non scorgere dietro questi eventi un disegno, o quanto meno una serie di provocazioni. In ogni caso, una spia del fatto che la nostra politica in Libia rischia di essere fondata sulla sabbia – potremmo aver puntato sul cavallo sbagliato – e che resta alto il rischio di un’escalation tra le fazioni in lotta per il controllo del Paese. Il governo di Fayez al-Sarraj sembra non aver alcun controllo del territorio, nemmeno a Tripoli, ed essere stato di fatto scaricato dalla comunità internazionale. Solo l’Italia si espone ancora a sostenerlo. Sicuri sia l’interlocutore giusto con il quale cercare un accordo per fermare il flusso di migranti che arriva sulle coste italiane?
I governi italiani hanno commesso almeno due errori. L’aver scommesso sul processo politico “onusiano” che ha portato alla legittimazione dell’impotente governo al-Sarraj e l’essersi fidati del presidente americano Obama, che oltre ai raid contro l’Isis non ha profuso che un minimo, formale impegno nel processo politico, che a suo avviso (non a torto) dovrebbe essere affare degli europei. Peccato che i nostri “amici” europei coinvolti in Libia si stiano muovendo in ordine sparso tutelando ciascuno i suoi interessi. E, come in Siria, l’impegno scarso e confuso prima, il progressivo disimpegno poi dell’amministrazione Obama ha creato anche in Libia un vuoto nel quale si sta inserendo la Russia di Putin.
Cosa fare, dunque? E’ il momento di correggere la rotta, ma non c’è un minuto da perdere. Il cambio di amministrazione a Washington offre non solo al Regno Unito post-Brexit ma anche all’Italia una exit strategy dal vicolo cieco in cui si è cacciata in Libia sostenendo con eccessivo zelo il fragile tentativo onusiano di al Serraj. Convincere Washington a riprendere in mano sul serio il dossier libico per controbilanciare, finché siamo in tempo, la crescente influenza della Russia. Mosca sta infatti sempre più stringendo i suoi rapporti con il generale Haftar, che con il suo esercito, al fianco del Parlamento di Tobruk, controlla ormai saldamente l’est e il sud del paese, infrastrutture petrolifere comprese. Dopo la visita a Mosca qualche settimana fa, Haftar è salito a bordo della portaerei Kuznetsov, di passaggio nel Meditterraneo di rientro dalla Siria, per siglare un accordo di collaborazione militare (si parla di forniture di armi per due miliardi di dollari).