È da qualche anno che il nostro Paese considera la Libia una macchia di colore sulla cartina geografica. Complice anche un ministro degli Esteri che militava in un partito dove erano evidenti le difficoltà di approccio con il mappamondo. Memorabile la gaffe dell’ex grillino e sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ad agosto 2020 espresse vicinanza agli “amici libici” per i morti provocati dalle esplosione al porto di Beirut e che nell’occasione confuse appunto il Libano con la Libia.
E l’attenzione che è mancata, più o meno consapevolmente, al rapporto tra Italia e Libia ora ci mostra il conto. Ed è un conto salato. Destinato a lievitare assai se il nuovo governo non prenderà in considerazione da subito di riallacciare quel filo che si è spezzato tra i due Paesi sul tema dei migranti e non solo.
Il flusso di clandestini che dalla Libia arrivano sulle nostre coste infatti non è destinato a fermarsi.
Questo è ormai chiaro a tutti, meno a coloro che negli anni scorsi avrebbero dovuto lavorare per stabilizzare il Paese. Ma si può intervenire per governare e ridurre il fenomeno, in attesa di un piano Marshall per l’Africa. Le partenze dalle coste del Paese nordafricano, complice il mare calmo, non accennano a diminuire e si rischia di avere un flusso costante per tutto l’anno.
Anche le tecniche di partenza si sono affinate. Niente più grandi gommoni carichi all’inverosimile. Sempre più spesso si vedono partire piccole imbarcazioni che vengono intercettate al largo dai pescherecci. Oppure, proprio questi ultimi portano al largo i migranti che poi, a poca distanza dalle zone Sar, vengono smistati sui gommoni per essere in seguito intercettati dalle Ong. Nei giorni scorsi, la Guardia Costiera libica ha bloccato proprio un peschereccio con 300 persone a bordo. Ma si tratta di operazioni rare vista l’esiguità dei mezzi di cui dispone e la mancanza di una struttura organizzata in grado di gestire il fenomeno.
L’Italia torni a fare politica in Libia
Dopo anni di approccio timido, per usare un blando eufemismo, è dunque necessario che l’Italia torni a fare politica in Libia. La questione sbarchi scoppiata negli ultimi giorni è ovviamente solo la punta dell’iceberg e rappresenta fumo negli occhi trattando solo gli effetti e non la causa del problema.
L’Italia deve tornare davvero in Libia, dopo anni di assenza ingiustificata dettata da scelte politiche inesistenti da parte di governi disinteressati (colpevolmente?) al dossier. Nei giorni scorsi c’è stata una telefonata tra il ministro degli Esteri italiano e l’omologo libico. Un primo passo, che al momento non si sa dove porterà.
Intanto, uno dei primi banchi di prova del governo Meloni potrebbe essere il cambio di ambasciatore che dovrebbe avvenire a febbraio. Chi sarà chiamato a ricoprire quel ruolo avrà un compito difficile e già si ragiona sul profilo da scegliere.
La Libia va sistemata, e non solo per il problema legato all’immigrazione. Da queste pagine lo ripetiamo da anni. Va sistemata per i noti interessi economici del nostro Paese e per equilibrare l’intera area.
Presenza straniera in Libia: la Turchia fa da padrona e la Francia non vuole i migranti
E ogni giorno che passa diventa sempre più difficile riportare il Paese, diviso in tre parti con due governi che si combattono, all’interno di una stabilità politica accettabile. La presenza straniera, con la Turchia in testa, non aiuta il processo di unificazione, al contrario alimenta le lotte tra le diverse fazioni. L’Italia, quindi, deve tornare in Libia con piglio deciso, indipendentemente dall’Unione Europea. Del resto, Paesi come la Francia, che in queste ore agita la bandiera del rispetto delle leggi europee, si muove in Libia come a casa propria, perseguendo i propri interessi nazionali e senza preoccuparsi delle direttive Ue.
Perché in fondo, si sa, siamo tutti Europa con i migranti mollati agli altri.
E forse le polemiche, le ritorsioni e gli “incidenti diplomatici” sulla mancata accoglienza dei migranti a bordo dell’Ocean Viking da parte dell’Italia, sembrano creati ad arte da Parigi per nascondere altro. La violenza verbale di queste ore dei francesi, ma anche delle anime belle della sinistra italiana, contro le decisioni prese dal governo Meloni puzza.
Ed è puzza di petrolio.