In forza di un potere rinsaldato, Erdogan rilancia la carta dell’espansionismo economico-militare turco nel Mediterraneo. Dallo sventato “golpe guleniano” del 2016 alla vittoria del referendum sul presidenzialismo l’anno successivo, fino alle campagne militari nel nord della Siria, sono steps vittoriosi che hanno fornito al Sultano un consenso senza precedenti.
In forza di questa riguadagnata fiducia, il presidente turco si lancia nell’ennesima sfida rivolta ad ottenere una posizione di privilegio nel Mediterraneo.
Il duplice scopo è la legittimazione della Turchia all’accesso delle riserve di idrocarburi al largo di Cipro, sventando così il rischio che un gasdotto colleghi i giacimenti israeliani e ciprioti all’Europa senza il consenso dello stesso Erdogan. In seconda battuta, l’alleanza di fatto esistente tra i turchi e i libici schierati con al Serraj che potrebbe legittimare un intervento armato ottomano in territorio libico, in funzione anti-Haftar, sotto lo sguardo attonito degli egiziani, perennemente in lotta con le ramificazioni globali dei fratelli musulmani in costante ascesa dal Maghreb alla Turchia medesima.
Al momento, il governo di accordo nazionale libico ha formalmente richiesto alla Turchia di intervenire, dandole sostegno militare “nei cieli, sul terreno e sul mare” contro l’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. In merito alla richiesta di al Serraj, il parlamento di Ankara si pronuncerà dal 7 al 9 gennaio prossimi anche se la sensazione è quella di un voto scontato in favore della politica voluta da Erdogan, vista favorevolmente da ampi strati delle compagini rappresentate in aula.
Ma l’attivismo turco non è scevro da aspre critiche e preoccupazioni internazionali. Sia la Russia che l’Egitto hanno infatti espresso dubbi sulla legittimità dell’intervento turco in Libia chiedendo, in alternativa, di continuare negli sforzi diplomatici per fermare il bagno di sangue.
Ma nel frattempo un altro oscuro fronte si profila all’orizzonte, quello della chiamata alle armi per i miliziani jihadisti in funzione anti-Haftar.
Dalla Siria, l’Osservatorio per i diritti umani, operante nel Paese, ha riferito che gruppi di ribelli filo-turchi hanno attivato, nelle aree del nord -est controllate da fazioni leali ad Ankara, alcuni centri di reclutamento di combattenti da inviare in Libia.
Questo mentre in Niger due cittadini turchi sono stati tratti in arresto con il sospetto di avere reclutato miliziani contigui allo Stato islamico da inviare in Libia e da utilizzare per destabilizzare la sicurezza, peraltro già precaria, nella zona del Fezzan in concomitanza con l’iniziativa militare turca.
Di per sé la notizia potrebbe non rappresentare una novità dal momento che sono numerosi i combattenti provenienti dall’ex Stato islamico che sono caduti sul fronte libico nell’intento di creare delle roccaforti in attesa di una più vasta riconquista di territori della zona sud ovest del Paese.
E proprio in quest’ottica, Erdogan lavora nel sottobosco allo scopo di creare le teste di ponte necessarie ad un ingresso “trionfale” del suo esercito in nord Africa. E poco importa che la base di consenso provenga da ambienti jihadisti. In fondo la creazione di uno stato islamico panarabo ha sempre rappresentato un progetto a lungo termine della fratellanza musulmana, di cui Erdogan è parte integrante ed attiva.