Un palestinese sarà il prossimo inviato Onu per la crisi libica. Si tratta di Salman Fayyad, l’ex premier della Palestina che andrà a sostituire l’attuale capo delegazione, il tedesco Martin Kobler. Sull’ormai ex inviato delle Nazioni Unite pesa l’accusa da parte del Consiglio di Sicurezza di un eccessivo appiattimento nel sostegno all’attuale premier designato, Fayed al Sarraj. Molti analisti internazionali concordano sul fatto che questa scelta possa essere interpretata come un segnale da dare a Sarraj, ormai da quasi due anni impelagato in uno stallo che sembra non avere fine perché si è dimostrato incapace di stringere un accordo con il parlamento di Tobruk e con tutte le altre tribù libiche, che ormai agiscono ognuna per conto proprio. Ma, soprattutto, il cambio al vertice della missione Unsmil sembrerebbe un segnale per il generale Haftar, che nell’est della Libia continua ad ottenere successi nella lotta all’Isis. Appena due settimane fa l’ex generale di Gheddafi è riuscito a liberare con il proprio esercito la città di Ganfuda.
Questa successione all’Onu è probabilmente il primo grande effetto della politica estera del neopresidente americano Donald Trump, che però non vede di buon occhio la nomina di Fayyad. La nuova ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, ha comunicato la delusione degli Usa per tale scelta.
Tutti sono a conoscenza che la Russia di Putin vedrebbe in Haftar il nuovo dominus per risolvere la crisi libica. E ora anche gli Stati Uniti si sono probabilmente convinti di questa necessità. Resta da capire come mai il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite abbia scelto un palestinese, l’ennesima occasione mancata per l’Italia che, essendo il Paese occidentale più direttamente interessato alla Libia (sia per ragioni migratorie che economiche) avrebbe probabilmente avuto diritto ad avere un proprio commissario per gestire la crisi. Del resto l’Italia è anche l’unico Paese occidentale ad aver riaperto un’ambasciata a Tripoli, ed è l’unica nazione europea che ha inviato un proprio ministro (Marco Minniti) in terra libica.
Intanto, mentre la comunità internazionale è divisa e continua a tentennare, a Tripoli c’è stato l’ennesimo atto provocatorio da parte dell’ex premier libico Ghwell. Se lo scorso gennaio aveva occupato tre Ministeri tripolini (in realtà si trattava di edifici vuoti), ieri le truppe dell’ex premier hanno sfilato per Tripoli con mezzi e uomini rivendicando di essere, come “Guardia Nazionale”, l’unico vero esercito della Libia. Non è stato sparato neppure un colpo di fucile, ma è evidente che anche questo gesto vuole dimostrare al mondo intero le difficoltà di Sarraj di imporsi nel Paese. Anzi, nella stessa Tripoli dove ha sede il Parlamento da lui governato.
In queste condizioni la conseguenza inevitabile è che il tanto sbandierato accordo tra Libia e Italia per il controllo dei migranti diventa aria fritta. Chi, nel Paese, avrebbe forza e autorità necessarie a controllare il traffico di migranti e il diffuso contrabbando di armi e petrolio? Anche per questo l’ambasciatore libico in Italia, Ahmed Safar, in un’intervista rilasciata a Il Mattino (in edicola sabato 11 febbraio), ha tenuto a precisare che in realtà più di un accordo si tratta di un memorandum d’intesa. Un protocollo che rimette in pista il vecchio accordo del governo Berlusconi con l’allora Rais Gheddafi. Insomma è stato solo un modo per rafforzare i rapporti bilaterali tra l’esecutivo italiano e il flebile governo guidato da Sarraj, ma di concreto al momento c’è poco. Eppure, più di ogni altra nazione, proprio l’Italia è interessata a risolvere quanto prima il pauroso vuoto di potere persistente in Libia perché l’estate è sempre più vicina e i barconi di disperati sono pronti a salpare verso le nostre coste carichi di altri migranti. Da fonti vicine alle Nazioni Unite non viene escluso che ben presto la missione dell’Onu possa essere ulteriormente rafforzata attraverso l’invio dei caschi blu sul posto, proprio per arginare l’ondata di sbarchi che dall’inizio dell’anno ha visto già partire dalla Libia verso il nostro Paese ben 10mila persone. Una soluzione che non è possibile escludere nel caso lo stallo politico perdurasse nel territorio. Tanto più che con la costante perdita di influenza del Daesh in Medio Oriente e in Nord Africa si fa sempre più serio il pericolo che in mezzo ai disperati che fuggono da guerra e fame possano infiltrarsi anche foreign fighters di ritorno, con l’obiettivo di sferrare altri attacchi terroristici in Europa.
E poi, la paura mai confessata, ma avvalorata da più analisti, è che Haftar, in assenza di un forte riconoscimento da parte della comunità internazionale, possa egli stesso favorire un flusso di migranti massiccio sulle nostre coste per aggravare ancor di più la situazione e rendersi interlocutore ancor più privilegiato per i Paesi occidentali. La nomina di Fayyad per la missione Onu in Libia servirà per sbrigare soprattutto le urgenze tecniche. La politica internazionale dovrà fare il resto. Ammesso che le principali potenze coinvolte riescano a trovare un serio accordo. Un accordo che in realtà sembrerebbe a portata di mano. Manca però la volontà da parte di tutti gli attori in gioco di fare un passo indietro per farne altri dieci in avanti.