L’infausta fine dell’avventura afghana dell’Occidente, inizialmente protesa alla definitiva neutralizzazione delle basi jihadiste e conclusasi con una disastrosa ritirata, scevra dall’avere ottenuto risultati plausibili nella lotta al terrorismo islamista ha, di fatto, accresciuto il livello di allarme a livello globale.
In concomitanza con il ventennale dell’11 settembre, e della vendetta incompleta dell’Occidente, è opportuno riflettere sulla nascita del fenomeno jihadista ripercorrendone la genesi e sottolineando che il fenomeno non è stato debellato, ma è purtroppo ancora in fase di crescita diffusa con una ancor più pericolosa frammentazione delle cellule operative in Occidente.
Un ampio fattore di sottovalutazione
Non era un’incognita sin dall’inizio della campagna afghana, eppure ai master di intelligence di Langley qualcosa è sfuggito oltre, ovviamente, agli armamenti regalati ai talebani.
La rete Haqqani, dal nome del fondatore “Mawlawi” Jalaluddin Haqqani, è attiva dagli anni ’90 nell’area denominata Loya Paktia (Grande Paktia), una zone dell’Afghanistan che comprende le province sud-orientali di Paktia, Paktika e Khost, oltre che quelle di Logar e Wardak, a ridosso della capitale Kabul. Il network, composto da miliziani islamisti ha inglobato, negli anni, altre realtà jihadiste anche oltre i confini pakistani.
I Talebani altro non rappresentano che un’emanazione della rete Haqqani che ha i suoi centri nevralgici a Peshawar e Quetta.
Jalaluddin Haqqani, ideatore dell’omonima rete, è stato uno dei principali protagonisti della guerra antisovietica successiva all’invasione dell’Afghanistan.
Conosciuto anche come stretto collaboratore di Oussama Bin Laden, con il miliardario saudita ha contribuito alla fondazione di al Qaeda, il Makhtab al Kidhamat (ufficio servizi), nato come centro di reclutamento di mujaheddin in funzione anti-sovietica.
Alla sua morte, avvenuta nel 2018, gli è succeduto il figlio, Sirajuddin Haqqani, che nel 2015 è stato nominato vice del leader talebano Mullah Akhtar Mohammed Mansur, rinforzando il legame tra le due entità jihadiste.
Oggi, Sirajuddin è ministro degli interni dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
Durante la sventurata missione occidentale in Afghanistan, mirata all’eliminazione dei leader terroristici e all’instaurazione di un “regime democratico”, la rete Haqqani ha tempestato le forze dell’alleanza con ripetuti attacchi simultanei compiuti con Ied, armi leggere, azioni suicide e veicoli bomba.
Tra le azioni più eclatanti vanno ricordate quelle del giugno 2011 all’Intercontinental Hotel di Kabul, perpetrato in sinergia con le milizie talebane, quello contro l’ambasciata Usa nella Capitale afghana nel settembre dello stesso anno, il quartier generale della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF), il palazzo presidenziale e il quartier generale della Direzione centrale della sicurezza afghana.
Solo nel 2012, gli Usa hanno designato la rete Haqqani come entità terroristica per il diretto coinvolgimento negli attacchi contro la coalizione e per la riconosciuta vicinanza con al Qaeda e i Talebani.
I leader di Haqqani, Saidullah Jan, Yahya Haqqani e Muhammad Omar Zadran, Qari Abdul Ra’uf (a.k.a. Qari Zakir) e Ibrahim Haqqani, sono stati conseguentemente inseriti nelle liste dei ricercati a livello globale e destinatari di sanzioni finanziarie.
L’ombra del Pakistan
L’Inter Services Intelligence, l’agenzia di sicurezza di Islamabad, ha sempre foraggiato e diretto le operazioni ritenute più idonee a destabilizzare l’area afghana allo scopo di acquisirne il controllo e aprirsi un varco nell’Asia centrale in funzione anti-iraniana e in diretta concorrenza con i confratelli sunniti di Riad.
Inizialmente, l’operazione viene concepita dalla Cia, in funzione anti-sovietica e dal Inter Services Intelligence pachistana (Isi) per mano del partito islamista pachistano Jamaat-i-Islami, da cui provengono molti consiglieri del generale Zia Ul Haq, capo dello Stato tra il 1977 e il 1988.
Dalla fine del 1988 migliaia di militanti islamisti, tra i più irrequieti del Medio Oriente, partono per l’Afghanistan per la jihad non disdegnando di fare sosta in Somalia, Paese devastato da un permanente stato di guerra civile.
Il ricco saudita, Oussama bin Laden, coordina le operazioni di reclutamento per tutti e due i Paesi. A Peshawar, i militanti vengono presi in consegna dall’Ufficio dei servizi (Makhtab al khidamat), un organismo diretto da Abdullah Azzam, Fratello musulmano giordano di origine palestinese, misteriosamente assassinato nel settembre del 1989
In Somalia, il porto di Boosaaso si rivela la destinazione prediletta e “low profile” per sbarcare uomini, armi e mezzi provenienti da tutte le aree del globo. Da Boosaaso i volontari, che da allora si chiameranno “afghani”, in massima parte oppositori politici provenienti dal Medio Oriente e dal Maghreb, vengono dirottati per le aree di operazione per le rotte che dalle coste somale conducono a quelle pakistane Chabahar e Karachi, da dove, con la complicità dei miliziani locali e dei citati servizi pakistani, raggiungono l’Afghanistan che, nel gergo ancora corrente tra i jihadisti, diventa Haidora, da Haia – dora, “giro nel cerchio” desunto dal tragitto percorso per essere avviati ai campi afghani.
Un cambio di scenario non inaspettato
La partenza dei sovietici dall’Afghanistan (1989), ma soprattutto la guerra del Golfo (1990-1991) e la caduta dell’Unione sovietica (1991) muteranno lo scenario.
Gli “afghani” si rivoltano contro gli Stati Uniti, accusati di fare la guerra al mondo musulmano. Il Pakistan molla il pupillo Hekmatyar, che sostenendo Saddam Hussein si è inimicato l’Arabia saudita, per giocare nell’agosto del 1993 la carta dei talebani, anch’essi islamisti, ma più conservatori. I talebani si assicurano tra il 1993 e il 1996 la benevolenza degli Stati Uniti. E il gioco ricomincia: la carta da giocare ora per la Cia e i servizi Usa sono diventati i talebani.
Ma le carte in tavola cambiano di nuovo quando i talebani, indispettendo gli Usa, danno asilo a Oussama bin Laden, si arricchiscono con la coltivazione del papavero e scatenano una tale repressione contro le donne che il Dipartimento di stato, per bocca di Madeleine Albright, prenderà nettamente le distanze da loro nell’autunno del 1997. Fine del rapporto con i talebani.
Ma i campi sorti nelle zone tribali dell’Afghanistan e nel nord della Somalia, un tempo destinati all’addestramento dei mujahiddin antisovietici, non hanno mai chiuso i battenti. E sono strapieni di armi fornite, come si è visto, dai “creatori” americani.
Le reti di reclutamento internazionali continuano a funzionare per tutti teatri della jihad: l’Emirato afghano, lo Yemen, il Kashmir, la Somalia e la Bosnia.
Gli Usa nel mirino
Dopo il primo attacco al World Trade Center di New York, nel febbraio del 1993 quando la detonazione di un furgone ricolmo di esplosivo provoca la morte di 6 persone ed il ferimento di oltre 1000, l’inchiesta permette di risalire rapidamente a una banda alquanto “strana”.
Il principale accusato, lo sceicco cieco egiziano Omar Abdurrahman, era vissuto tanto a Peshawar quanto a Boosaaso, e i suoi due figli combattevano in Afghanistan. Noto anche per avere approvato l’assassinio del presidente Sadat, lo Sheikh Abdrurrahman è considerato uno dei fondatori del movimento radicale egiziano, la Jama’a Islamiya.
Eppure, nel maggio del 1990, lo sceicco ottenne un visto al consolato americano di Khartum, seguito dal rilascio di una carta verde al suo arrivo nel New Jersey. Anche gli altri accusati, Youssef Ramzi, pachistano, originario del Beluchistan ma cresciuto in Kuwait, Mohammed Salameh e Ahmed Ajjaj, entrambi palestinesi, sono passati per i campi afghani così come per quelli somali. E tutti arrivati come méta finale nel New Jersey.
In aggiunta, Ramzi Youssef l’artificiere dell’attacco alle Torri Gemelle, è nipote di Khalid Sheikh Mohamed, il regista dell’11 settembre e ideatore del Progetto Bojinka, un piano di dirottamento simultaneo di più voli di linea statunitensi dal quale ha preso spunto l’attacco sul suolo americano del 2001.
Nel 1993 il pachistano Mir Aimal Kansi aprì il fuoco sugli impiegati della Cia mentre entravano negli uffici dell’agenzia a Langley.
Sia Kansi che Ramzi Youssef risultano essere stati reclutati dalla Cia in Pakistan, rispettivamente nel 1993 e 1995.
Nel maggio del 2011, con l’eliminazione di Oussama Bin Laden in territorio pakistano, l’idillio tra gli Usa, il Pakistan e la rete Haqqani, si infrange.
Un iniziale distacco dell’Isi pakistano dagli americani provoca preoccupazione in questi ultimi che tentano di ricucire lo strappo in funzione della comune lotta al terrorismo internazionale, in gran parte di matrice pakistana, di cui Islamabad è allo stesso tempo vittima e carnefice.
Gli Haqqani, nel frattempo, continuano a lucrare abbondantemente sui traffici e sui dazi imposti agli stessi Talebani e, ad oggi, non risultano essere stati indeboliti nella loro più che solida struttura, proseguendo nei loro intenti mirati alla globalizzazione della jihad.