La storia infinita della guerra non ortodossa combattuta contro il progressivo avanzamento dello sviluppo del nucleare iraniano, si arricchisce di nuovi episodi. Dal mese di giugno, infatti, si susseguono “strani” incidenti, sabotaggi, esplosioni alle infrastrutture militari e di ricerca nucleare del regime degli Ayatollah, con conseguenze quasi catastrofiche sul proseguimento delle attività connesse.
Ricapitoliamo gli ultimi eventi
Nella nottata tra il 25 e il 26 giugno, presso il complesso militare di Parchin, a 30 km a sud est di Teheran, una grossa esplosione distrugge buona parte delle infrastrutture dedite all’attività di produzione di munizioni, esplosivi e combustibile solido per missili, sviluppando una nube tossica di polvere arancione. La base, secondo alcuni analisti, era anche sede di un centro di ricerca e sviluppo di armi nucleari della Repubblica islamica. Nelle ore successive, un imponente incendio si propaga presso la principale centrale elettrica di Shiraz, poco distante dal luogo della prima esplosione.
Il 2 luglio un altro incendio si sviluppa presso la centrale elettrica di Ahvaz, capoluogo della regione del Khuzestan nell’ovest del Paese, a cui fa seguito un’esplosione in una fabbrica per l’assemblaggio di missili a Khojir, nei pressi di Teheran. L’impianto fornisce energia alla vicina centrale nucleare di Darkhovin, a sud di Ahvaz, uno degli impianti di più recente costruzione.
Nelle ore successive, un’altra esplosione si verifica a Natanz, capoluogo dello Sharestan, nella provincia di Esfahan. La località è sede di un impianto sotterraneo per l’arricchimento dell’uranio e, in una delle strutture coinvolte nell’incidente, erano immagazzinate le centrifughe avanzate dedicate. L’incidente, secondo l’intelligence israeliana, ha ritardato il processo di arricchimento dell’uranio per un periodo da uno a due anni.
Lo stato maggiore della Guardia rivoluzionaria iraniana ha reso pubblico un documento in cui si afferma che è altamente probabile che ignoti abbiano introdotto un’ordigno esplosivo all’interno della struttura, minacciando di vendicarsi se fossero accertate le responsabilità di un paese straniero.
Il 7 luglio, una fuga di cloro si verifica dall’impianto petrolchimico di Karoun, seguita da alcune esplosioni presso una fabbrica di ossigeno a Baghershahr avvenute durante il riempimento di alcune bombole.
Il 9 luglio esplosioni multiple sono riportate a ovest di Teheran, nei pressi di Karaj, seguite da interruzioni di corrente. Secondo fonti dell’opposizione iraniana, Karaj è una delle basi delle Guardie Rivoluzionarie e dei sistemi di difesa anti-aerea di Teheran. Il Generale Gholamreza Jalali, capo dell’Organizzazione per la difesa civile iraniana, ha dichiarato alla tv di Stato che “se venisse dimostrato che il nostro Paese è stato preso di mira da un attacco informatico, risponderemo”.
Il crollo verticale dell’intelligence iraniana
Fino all’operazione del Mossad israeliano, che nel gennaio 2018 permise di sottrarre buona parte dei “segreti nucleari” dell’Iran direttamente dai “blindatissimi” uffici di Teheran, il Paese degli Ayatollah era ritenuto molto difficile da penetrare, anche rispetto ai territori siriano e libanese dove Israele ha compiuto centinaia di operazioni di intelligence e incursioni aeree.
Solo ai tempi della direzione del Mossad da parte del defunto Meir Dagan, rimasto in carica sino al 2011, l’intelligence israeliana riuscì a compiere una serie di attacchi volti alla neutralizzazione di scienziati nucleari iraniani impegnati nei programmi di sviluppo di nuovi armamenti, come disposto dalla leadership di regime.
La domanda diffusa tra i ranghi delle forze armate e della pubblica opinione (sebbene censurata) iraniane, non è solo come qualcuno abbia effettuato fino a sette attacchi in circa due settimane, ma come il controspionaggio iraniano (Vevak) non sia riuscito a prevenirli e fermarli.
L’apparto di intelligence iraniano, infatti, è noto per essere uno dei più operativi a livello globale, anche grazie alla capillarità del suo sistema di informazioni diffuso in tutti e cinque i Continenti.
Appare opportuno constatare che, mentre il Vevak ricopre in modo ottimale un ruolo primario nelle operazioni di intelligence tradizionali (infiltrazione, osservazione, rilievi e neutralizzazione del nemico), a livello cibernetico l’Iran appare quasi indifeso. Ovvia la constatazione che l’apparato di controspionaggio iraniano non abbia compiuto alcun arresto in relazione agli attacchi/incidenti perpetrati negli ultimi giorni, anche perchè le modalità operative messe in campo dagli ignoti sabotatori nelle ultime settimane sono attribuibili proprio ad una manovalanza sfuggita al controllo preventivo delle spie iraniane, piuttosto che all’operato di altrettanto ignoti hackers.
Ma c’è di più. Fonti dell’intelligence israeliana hanno di recente comunicato che il Vevak era in procinto di attuare alcuni piani di attacco contro diverse rappresentanze diplomatiche dello Stato ebraico in Europa. Questo anche in risposta alla neutralizzazione del generale dei Pasdaran Qassem Suleimani avvenuta nel gennaio scorso.
Il Mossad ha quindi operato nel contrasto ai progetti iraniani neutralizzando l’intera rete, peraltro non certo impermeabile, costituita da criminali locali e alcuni civili al soldo di Teheran, ritenuti fiancheggiatori per le operazioni del servizio segreto e dei Pasdaran al servizio del regime degli ayatollah.
L’organizzazione clandestina di spionaggio era operante nel settore della localizzazione e descrizione dettagliata degli obiettivi selezionati e dei movimenti del personale diplomatico. Questo sebbene ad alcuni soggetti ingaggiati erano devoluti compiti e assegnati ruoli assai più complessi, quali l’asportazione di documentazione riservata, l’arruolamento di informatori e la neutralizzazione di obiettivi, soprattutto di oppositori al Regime.
La scelta di una delega a personale non strettamente interno al Vevak è stata imposta all’intelligence iraniana dalla recente pandemia del Covid 19, che ha di fatto reso impossibile la movimentazione da e per l’Iran degli agenti operativi. Una situazione in divenire che fa supporre un’ulteriore evoluzione/escalation nel contrasto ai piani di sviluppo di armi nucleari che l’Iran persegue da anni, contrastato unicamente da Israele e Stati Uniti nel silenzio e nell’inazione di un’Europa sempre più assente e di un’Italia mai presente.